La breccia nel tempo

Torniamo indietro di una settimana, dopo la sosta temporanea dettata dai moadim di inizio anno. E domandiamoci quanto tempo sia trascorso dal 20 settembre 1870: tempo logico, prima che cronologico. Tempo che diventa distanza non solo dai fatti ma anche dalla loro memoria. La mattina di quel giorno, infatti, l’artiglieria del Regio esercito, guidata dal generale Raffaele Cadorna (esponente di una vera e propria dinastia di militari che avrebbe accompagnato nei decenni la storia del nostro Paese) ma comandata dal capitano Giacomo Segre (ebreo nato a Saluzzo nel 1839 e morto a Chieri nel 1894), dopo quattro ore di cannoneggiamento, riuscì ad aprirsi una breccia di una trentina di metri nelle mura di Roma, a brevissima distanza da Porta Pia. A quel punto, un battaglione di fanteria ed uno di bersaglieri riuscirono ad entrare nella città papalina. In un’ora e mezza le truppe (assai esigue, prive di reale capacità offensiva) dello Stato Pontificio dichiararono la resa, sventolando bandiere bianche a Castel Sant’Angelo e sulla cupola della basilica di San Pietro. L’evento, militarmente modesto, segnava tuttavia non solo la morte definitiva di ciò che restava della millenaria sovranità temporale (751-1870) della Santa Sede ma la definitiva affermazione del pieno controllo italiano sui territori peninsulari. Altra storia, beninteso, saranno le acquisizioni garantite dalla vittoria nella Grande guerra, quasi cinquant’anni dopo. La data della presa della Roma dei Papi, uno degli ultimi capitoli del Risorgimento, venne celebrata intitolando in molte città italiane una via centrale, rinominata via XX settembre; fu anche proclamata festa nazionale, prima di essere abolita (ma guarda un po’) nel 1929, in ragione della sottoscrizione dei Patti Lateranensi stipulati tra l’Italia fascista e quello che divenne lo Stato della Città del Vaticano. La spedizione militare italiana, peraltro, era stata abbondantemente preannunciata. L’8 settembre di quell’anno, Vittorio Emanuele II aveva inviato una lettera all’allora pontefice Pio IX, esprimendo l’intenzione di violare i confini dello Stato Pontificio. All’apertura della breccia di Porta Pia e alle scaramucce che ne seguirono (non fu una guerra e neanche una battaglia di rilevanti dimensioni; semmai assunse quasi da subito la natura di evento simbolico, periodizzante, spartiacque, da richiamare al ricordo da allora in poi), la popolazione, dopo un primo momento di sconcerto, partecipò con crescente entusiasmo a quella che per molti divenne una sorta di festa popolare. Per l’ebraismo capitolino, cessava l’esistenza del ghetto (istituito nel lontano 1555) mentre i suoi residenti, divenuti cittadini del Regno d’Italia (i cosiddetti «regnicoli») al pari dei non ebrei, acquisivano pressoché immediatamente l’emancipazione giuridica e la parificazione civile. Come è abbondantemente risaputo, dal 1888, dopo l’approvazione del nuovo piano regolatore dell’Urbe, la vecchia intelaiatura urbanistica (non solo disfunzionale ma malsana e priva dei più elementari servizi, a partire da quelli igienici, come da una rete fognaria accettabile) sarebbe stata completamente ristrutturata. Questo per ciò che riguarda la ricorrenza del XX settembre. Altra epoca, altro Stato, una diversa popolazione (che ancora faticava a sentirsi “cittadinanza”, semmai pensandosi come unione di sudditi) per qualcosa che ricordiamo sempre più raramente come parte di noi stessi. Oggi lo scenario collettivo è ben altro. Abbiamo semmai a che fare – infatti – con il sogno di una riscossa da parte di una maggioranza un tempo definita «silenziosa», ed ora invece chiassosa, che si pensa come una sorta di onda montante quando invece rischia di rivelarsi nella sua natura di orda di atomi senza legame. Il discorso maniacale contro le aborrite élite – quelle di ogni genere, a partire dalle leadership politiche – si sta traducendo nel miglior viatico per la loro continuità nei tempi a venire. Tuttavia, in assenza di qualsiasi residuo riscontro popolare, altrimenti in via di neutralizzazione. Poiché le proteste non si sono tradotte in nessuna alternativa politica ma solo nella lamentosità dell’eterna indignazione, alla fine della fiera priva di qualsiasi capacità propositiva. La commistione tra improvvisazione (non occasionale ma continuativa); assordante elogio dell’impreparazione; diffidenza diffusa nei confronti di qualsiasi forma di competenza ma anche spietata autopromozione da parte di piccoli gruppi in cerca di mobilità sociale e di visibilità pubblica; svuotamento di significati e contenuti della politica, ridotta a insieme di promesse incongrue e spesso solo fantasiose; sostituzione del principio di realtà (per quanto sgradevole possa essere) con una serie di estenuanti messe in scena puramente funzionali; disarticolazione dei corpi intermedi, le organizzazioni civili, sociali e istituzionali senza le quali gli «individui» sono fragili, abbandonati a sé, costituiscono l’insieme delle procedure attraverso le quali si sta svuotando la democrazia rappresentativa delle sue funzioni. Non è tanto «l’uno vale uno» bensì l’uno vale l’altro la vera logica di questi tempi. In un gioco di finta intercambiabilità continua, dove il Parlamento è descritto come un organismo oramai anacronistico ed inutile, un “costo” che andrebbe defalcato, secondo una logica della politica puramente contabile. Il «sovranismo», o come lo si preferisca chiamare, all’angoscia della mancanza di fisionomie chiare nei rapporti di forza sostituisce l’illusione di potere contenere la dirompenza di una globalizzazione incontrollata con l’identificazione di nuovi confini, perimetrando e annientando tutto quello che è indicato come “altro”, estraneo, quindi potenzialmente dannoso. È per l’appunto il sogno di una riparazione illusoria. Un sogno che concretamente si traduce invece nell’incentivare le diseguaglianze già esistenti (contro le quali afferma invece di volersi adoperare), stabilendo nuove gerarchie sociali, economiche e di relazione nelle collettività nazionali. Anche attraverso l’imperativo etnico. D’altro canto, ciò che si prospetta a livello internazionale non è il ritorno in forza degli Stati nazionali, spesso svuotati di capacità contrattuale e quindi obbligati ad una sorta di azione inerziale rispetto ai grandi problemi della contemporaneità (tassazione delle grandi ricchezze prodotte dall’economia della conoscenza e dell’informazione; contenimento della gig economy laddove questa è solo precariato e – quindi – sgretolamento della coesione sociale; governo dei processi migratori e così via) ma piuttosto di quelle che certa sociologia chiama efficacemente «città globali». Già ne abbiamo parlato. Vale ricordarlo, trattandosi di un tema cornice che emergerà rafforzato dopo la pandemia. Un numero crescente di metropoli mondiali, nelle quali sempre più spesso si addensa la popolazione in crescita, sono ora i veri centri dei mercati transnazionali e dell’economia globale. Ad esempio Pechino, Los Angeles, Tokyo, Shangai, New York, Londra, Mumbai, Milano ma anche, fatte le debite proporzioni, Tel Aviv. Di fatto esse fungono da fuoco di richiamo per capitali, merci, servizi ma anche e soprattutto manodopera. Sono quindi centri di potere, ovvero i luoghi delle vere decisioni. Ancorché caratterizzate dal continuare ad appartenere a nazioni diverse, le città globali – intese come vere e proprie entità autonome – condividono maggiori caratteri in comune tra di loro che non con i rispettivi contesti regionali e nazionali. Sono il punto di intersezione tra conoscenze, circolazione di dati e risorse, uomini e denari. L’interconnessione economica reciproca contribuisce a slegarle sempre più spesso dai territori limitrofi, che invece conoscono, subiscono e pagano gli effetti meno premianti dei processi di globalizzazione. Piuttosto che una perduta sovranità nazionale, alle ricerca della quale si rischia di mettersi inutilmente all’opera, sarebbe quindi il caso di ragionare su quale sia la natura del potere che si concentra in questi nuovi protagonisti della scena collettiva, per comprendere anche quali siano le strategie per evitare che le diseguaglianze erodano drammaticamente i legami tra società e comunità. L’illusoria strategia dell’isolamento, invece, rischia di farci fare la medesima fine di quei “papalini” che un giorno si svegliarono al suono delle cannonate del cambiamento.

Claudio Vercelli