Per un Kippur comunitario
Il nostro essere ebrei non può prescindere dall’esistenza della Comunità il cui mantenimento, sia dal punto di vista economico che di partecipazione, è dovere e compito di tutti, nessuno escluso.
È indispensabile che tutti sentano la necessità della propria individuale adesione e collaborazione, se necessario anche con il dissenso, perché ogni ebreo, esercitando i propri diritti e i propri doveri, possa avvertire come propria la Comunità.
La struttura comunitaria, impostata sulla collaborazione di tutti coloro che lavorano per essa, può apparire, a volte, come un luogo in cui si instaurano dinamiche interpersonali estremamente complesse e nel quale ci si sente spesso vittime di attacchi, rifiuti e frustrazioni.
Non a caso, nella lingua ebraica, la parola “Am”, “popolo”, ha le stesse consonanti del complemento di compagnia “Im”, “con”, come se essere Comunità costituisse una continua sfida per riuscire a stare assieme, anche con persone diverse da noi, e a con-dividerne un progetto. Ogni Comunità contiene al suo interno componenti tra loro diverse per provenienza, cultura, tradizioni, grado di osservanza religiosa.
Tale articolata varietà di risorse può costituire un grande valore quando vi sono le capacità e l’onestà intellettuale per un sano confronto. Ma l’atout del “pluralismo” – predicato molte volte a senso unico e proprio da chi con granitiche certezze esclude a priori tutto ciò che è “diverso” da sé – viene spesso abusato come strumento volto a giustificare comportamenti spregiudicati che delegittimano quei valori fondanti sui quali la sopravvivenza della Comunità stessa si fonda. In questo caso la ricchezza della molteplicità si trasforma, viceversa, in una forza disgregante, volta solo ad aumentare tensioni, sospetti, rancori, e volontà di dominio.
Nel momento in cui pronunciamo la parola “Comunità”, ci troviamo di fronte all’antica dialettica tra la sua valenza collettiva e quella individuale. Per la tradizione ebraica la “Comunità” non è un organismo funzionale-utilitaristico, ma addirittura un’entità dotata di vita propria.
L’entità personalistica e la realtà della Comunità, cioè a dire della Keneseth Israel, sono basate sulla teoria della complementarietà esistenziale tra tutti gli individui che la compongono.
Nelle nostre Comunità l’adesione a un’idea o a un progetto avviene, ormai sempre più spesso, sulla base di sodalizi personali e ideologici, e non piuttosto sulla base di una valutazione razionale libera da pregiudizi.
L’interesse stesso della Comunità passa allora in sott’ordine rispetto alla volontà di affermare il potere e il prestigio di questa o di quella corrente.
Essere membri di una Comunità significa, viceversa, sentirsi eredi di un patrimonio e di un destino che superano la nostra individualità e che ci conferiscono il dono e il carattere della continuità.
Dovrebbe essere un’armoniosa unità tra i diversi individui, e non un’uniformità di facciata a artificiale, a essere ricercata e perseguita. Ognuno deve contribuire al bene comune, con la ricchezza della propria persona, unica e irripetibile, “contenendo” la propria arroganza, e quella presunzione di essere al di sopra di tutti gli altri, credendosi detentore del modello di ebreo ideale.
Solo operando senza orgoglio e per il bene di tutti, anziché inseguendo il proprio interesse personale, potremo costruire la comunità del domani. Insomma si serve la Comunità, non ci si serve di essa.
Ciascuno al servizio della Comunità per una Comunità al servizio di tutti.
Se i valori che giustificano l’esistenza della Comunità stessa non sono condivisi, se l’impegno e le energie si disperdono e si proiettano in obiettivi astratti e di scarsa consistenza reale, se il senso di identificazione non va al di là di generiche dichiarazioni prive di contenuti seri, è chiaro che le prospettive a medio e lungo termine per un futuro sono scarse.
Il grado di partecipazione e di attenzione di molti, e il contributo progettuale alle attività ebraiche, dovrebbe essere almeno pari a quello che viene visibilmente profuso per accogliere personaggi ragguardevoli o impegni sociali paragonabili.
Sviluppare un rapporto armonico e fecondo con il mondo esterno è certamente uno dei nostri compiti fondamentali, ma non possiamo ridurre la nostra immagine a una mera funzione di rappresentanza.
Non possono certo essere solo le occasioni mondane, le cerimonie ufficiali, le celebrazioni con le autorità, o le manifestazioni di cui parlano le cronache dei giornali a rafforzare una Comunità.
È soprattutto all’interno della Comunità che è necessario moltiplicare le occasioni di frequentazione pubblica, di riunioni di lavoro, di momenti di scambio, di studio e di dialogo.
Troppe persone si definiscono ebree insistendo nel sostenere che la loro identità ebraica non si basa sulla conoscenza della cultura, ma piuttosto su sentimenti, attitudini, orgoglio, ricordi.
Questi sono criteri soggettivi e passivi, che non solo sono difficili da tramandare ad altri (la soggettività è molto personale), ma tendono a confondersi ed affievolirsi con il tempo e alla fine a scomparire.
Con tali presupposti il senso di appartenenza alla Comunità ebraica diminuisce ed infine si dissolve; le occasioni di vita ebraica si riducono a occasioni particolari e sporadiche.
Non è forse riconducibile a questa mancanza di comuni intenti, significati e contenuti ebraici, la principale ragione della diminuzione del numero di ebrei impegnati nelle nostre Comunità?
È sicuramente più comodo e demagogico accusare la Comunità di scarsa apertura e capacità propositiva , anziché ammettere che le varie e differenziate offerte di cultura ebraica comunitarie non rientrano nei propri interessi e che semplicemente il “focus” delle priorità è spostato su “altro”.
Molte persone non vogliono esser stimolate. Preferiscono continuare il loro stile di vita usuale e illudere se stessi che stanno praticando un significativo metodo di vita ebraica. Essi tendono a non riconoscere la serietà del problema. Cosa rende ebraica una Comunità? Innanzi tutto il continuo uso della sua cultura in modo specifico. Perfino la conoscenza estesa di una cultura particolare non è che una parte della cultura viva; solo l’attiva, sistematica, completa partecipazione impegna la persona nel perpetuarla. In effetti il problema della sopravvivenza ebraica oggi si riferisce non al nome ebreo ma all’aggettivo ebraico.
Quando la cultura ebraica rimane essenzialmente passiva, non frequentemente vissuta, un’esperienza vissuta da spettatore, o un semplice processo di conoscenza, finisce col divenire irrilevante e perfino banale quando viene paragonata alla cultura dominante in cui viviamo.
Di fronte agli interrogativi inquietanti che agitano oggi le nostre Comunità: le divisioni interne, l’antisemitismo che riesce ad accompagnarsi alla santificazione della Shoah cacciata fuori dalla Storia, il timore per la sopravvivenza fisica di Israele, la minaccia del terrorismo globale che ci vede consapevolmente obiettivi sensibili, la crisi socio economica, una strategia possibile è quella di serrare le fila e riappropriarsi della possibilità di costruire un domani, riferendoci a quel nobile insegnamento dei Profeti, “…. betòkh ammì anokhì yoshàvet”, “in mezzo al mio popolo io me ne sto…” (2 RE, 4; 13), sempre e comunque.
Con la viva speranza di riprendere in mano le nostre sorti auguro a tutti voi
Shana tovà umevorechet, ketivà vechatimà tovà
Rav Roberto Della Rocca, direttore dell’area Formazione e Cultura UCEI