Se tu protesti, io prego

Tutti conoscono la drammatica situazione che stiamo vivendo in Israele, con percentuali di positivi al covid-19 elevatissime e un numero di vittime che ormai rievoca gli spettri delle peggiori guerre che abbiamo combattuto.
Siamo così storditi da non voler vedere nemmeno come siamo finiti in una situazione tanto grave. E così mentre il governo stenta, per usare un eufemismo, a trovare soluzioni, si è scatenata la “caccia all’untore”: chi è il vero colpevole? In una logica di contrapposizione e di tutti contro tutti, che ci saremmo dovuti lasciare alle spalle almeno già per Tishà beAv e sicuramente in vista di Kippur, si è creata fra le tante una lotta che all’osservatore attento dovrebbe risultare sbalorditiva: i “religiosi” contro i “manifestanti”. In sintesi la diatriba potrebbe riassumersi così: “perché io dovrei accettare di chiudere il tempio se i manifestanti sono liberi di scendere in piazza?”. Perché tale contrapposizione è sbalorditiva? Perché l’ebraismo non solo contempla la necessità di migliorare il mondo, seguendo la nota idea per la quale “l’uomo è socio del Signore nell’opera della Creazione”, bensì è addirittura fondato sull’esigenza di combattere l’ingiustizia, fosse anche, paradossalmente, contro il Signore. Nelle parole di rav Sacks, è unico dell’ebraismo il “discutere con il Cielo, perfino contro il Cielo, per amore del Cielo, il dialogo che esprime il patto fra l’uomo e D-o, il protestare contro la sofferenza in nome della giustizia”. È anche lecito esigere che le manifestazioni rispettino dei criteri di sicurezza consoni al contenimento dell’epidemia. Ma il contrapporre ideologicamente la manifestazione con il tempio, come fossero due elementi necessariamente opposti è, appunto sbalorditivo. Potremmo dire, non in linea con la tradizione ebraica (c’è anche il rischio che si arrivi a pensare che la manifestazione, la protesta, siano il nucleo dell’ebraismo e che a tutto il resto, a cominciare dal tempio, si possa rinunciare. Un errore classico, sul quale non mi soffermo).
Infine c’è una considerazione che qui accenno soltanto e che merita un approfondimento a sé: una volta che le autorità rabbiniche hanno stabilito che sia meglio chiudere o ridurre fortemente l’afflusso al tempio per fermare la pandemia e pregare all’aperto e brevemente (nel momento in cui scrivo queste sono le indicazioni per kippur; per gli altri giorni le sinagoghe sono sicuramente chiuse), l’incaponirsi a fare tefillot “normalmente” è non solo una grave mancanza di rispetto nei confronti dell’autorità rabbinica, ma soprattutto è paradossalmente uno svilimento della tefillà stessa: questa rischia infatti di non essere più l’umile espletamento di un comandamento divino quanto l’appagamento dell’orgoglio personale.

Rav Michael Ascoli