L’augurio di Ne’ilà

Credo, e non solo per me, che quello della Ne’ilà sia il momento più alto e commovente delle nostre tefilloth di Kippur.
Un’antica preghiera sefardita composta nel XII secolo da Moshé ibn Ezra, la cui paternità è dichiarata, nell’acrostico, dalle iniziali dei primi sei versi – Moshé Hazak.
È l’ultima possibilità, durante il Kippur, di chiedere perdono a Dio. Ma è anche richiesta di salvezza e protezione, e preghiera affinché si avveri il ritorno a Sion.
Tutto chiaro e comprensibile, in epoca di precarietà esistenziale. Si confida in Dio e nella sua infinita, gratuita grazia.
Poi però, all’improvviso, la preghiera cambia destinatario e si rivolge direttamente ai fedeli: ‘Tizkù leshanim rabboth, habanim veaavoth’ (‘Possiate meritarvi molti anni futuri, figlie e padri’). Bellissimo augurio, quasi un invito a meritarseli quegli anni futuri, figli e padri insieme. Ma perché ‘figli e padri’ e non ‘padri e figli’, come sarebbe cronologicamente corretto? Non è certo solo questione di rima. Si ha la sensazione che la preghiera concepisca una separazione avvenuta, o in corso, fra padri e figli, con i figli allontanatisi dai padri – e dalle loro tradizioni. E si sente con strazio lancinante l’implorazione che Dio faccia ritornare i figli ai padri.
Non c’è momento più alto che nell’ora conclusiva di Kippur perché questa supplica trovi il coraggio di esprimersi, con il nodo alla gola.
Assolutamente appropriato che l’ultimo verso confidi negli angeli per il miracolo della redenzione e della salvezza. Ma, certamente, anche gli uomini possono fare la loro parte.

Dario Calimani

(29 settembre 2020)