Machshevet Israel
Nachmanide e le aggadot

Moshe ben Nachman, il Ramban (1194-1270), forse il maggior pensatore ebreo del XIII secolo, è spesso ricordato come un mistico anti-razionalista, fine teologo e difensore della tradizione rabbinica nel solco di Yehuda HaLevi; viene soprattutto citato come il coraggioso apologeta della fede ebraica nella ‘disputa di Barcellona’ del 1263 “a seguito della quale – scrive rav Giuseppe Laras nella sua Storia del pensiero ebraico – decise di accelerare il proprio proposito di trasferirsi in [terra di] Israele”. Di quella disputa, che lo vide controbattere agli insidiosi argomenti conversionistici dell’apostata Pablo Christiani, scrisse egli stesso un resoconto. Tale straordinario documento, che attesta la vis dialettica del Nachmanide, fu reso disponibile per la prima volta in italiano nel 1998, tradotta da Saverio Campanini, nel prezioso volume edito da Giuntina Nahmanide esegeta e cabbalista. Studi e testi, a cura di Moshe Idel e Mauro Perani, che l’editore ha meritoriamente ristampato in questi mesi. Contiene tra l’altro il “Discorso sulla perfezione della Torà”, un classico ancora poco conosciuto, ancor meno studiato (e chiunque volesse accostarsi al pensiero del grande maestro catalano dovrebbe partire da qui).
Nel resoconto della disputa vi è un passaggio (al punto 39 della citata traduzione) dove il Ramban polemizza con la pretesa del suo avversario cristiano che il messia fosse già venuto, come attesta, secondo l’apostata, anche l’aggadà là dove dice che il messia nacque nel giorno in cui fu distrutto il tempio. Nel respingere questa tesi, Nachmanide afferma che “noi ebrei abbiamo tre generi di libri: la Bibbia, a cui crediamo incondizionatamente; il Talmud, che è un commento ai precetti della Torà (…); e infine un terzo genere letterario, detto midrash ovvero i sermoni [le aggadot] (…) Se qualcuno presta fede a quest’ultimo, bene; se uno non ci crede, nulla di male” (pp.393-394). Per secoli questa affermazione ha diviso e contrapposto su due fronti gli studiosi circa la posizione intellettuale del Ramban dinanzi al massiccio corpus midrashico della tradizione ebraica. Poteva un maestro della statura del Nachmanide lasciare libertà di scelta di credere o non credere alle aggadot? Non crederci, nel XIII secolo, non equivaleva a una forma di eresia? Per molti e a lungo la linea dell’ortodossia è passata attraverso tale questione (che non a caso si ripopose con veemenza nel XVI secolo tra Azariah de’ Rossi e il Maharal di Praga).
Alla fine degli anni Ottanta, il rabbino ortodosso e filosofo Marvin Fox fece in un saggio il punto su questo secolare dibattito e sul pronunciamento nachmanideo. Dopo aver riportato le opinioni di chi ritiene che il Ramban non pensasse davvero quel che riportò a parole sulla dispura (e che mise nero su bianco), Fox, forte degli studi dello storico Haym Maccoby e dell’insigne talmudista Saul Lieberman, sostenne con convinzione che quella ‘libertà di fede’, chiamiamola così, dinanzi al materiale aggadico “riflette un insegnamento a lungo tramandato dai saggi” nella storia delle idee ebraiche: questo materiale, di sua natura, ha sempre richiesto un approccio selettivo e valutativo, che combinasse rispetto per la tradizione e senso critico. Un Ramban preso a tal punto dalla mistica da diventare anti-razionale non corrisponde al vero profilo storico di questo maestro. Il suo anti-maimonidismo era su temi specifici (i miracoli, ad esempio), non sul valore della ragione nello studio delle fonti. Scrive Fox: “Nessuno che abbia approfondito l’opera di Nachmanide può dubitare che egli tenesse il Maimonide in grande considerazione”. A riguardo delle aggadot “il rispetto e l’apprezzamento non implicano l’obbligo di sospendere un giudizio indipendente”. “Ciò non significa che il Ramban si sia accostato all’insieme dell’aggadà rabbinica con un’iniziale mancanza di fede, con irriverenza o persino con rifiuto; significa piuttosto esercitare un possibile, anzi doveroso vaglio intellettuale nel nostro studio del materiale aggadico, al fine di determinare quando accettare o rifiutare un determinato midrash. Coloro che sono scossi dalla posizione del Nachmanide hanno posto scarsa attenzione alla natura e allo status della letteratura aggadica nel complesso del canone ebraico. E forse difettano nella comprensione dello stile e della mentalità di uno dei più grandi ebrei del Medioevo”.
Nell’introdurre il volume sopra citato, Mauro Perani – al quale va l’indiscusso merito di aver promosso, quasi da solo e già decenni fa, la conoscenza del Ramban in Italia – lo descrive così: “Fu convinto assertore della superiorità della via della rivelazione biblica sulla speculazione razionale, senza essere affatto sprezzante della ricerca filosofica di cui spesso riprende idee e concezioni, utilizzate per interpretare meglio il testo biblico (…) Medico formatosi nello studio dei trattati di Ippocrate e Galeno e di scienziati musulmani come Avicenna, che gli ebrei avevano tradotto nella loro lingua (…) fu sottile ragionatore e arguto polemista, ma insieme poeta…”. Ce n’è abbastanza per toglierlo dall’oblio in cui giace.

Massimo Giuliani, Università di Trento

(1 ottobre 2020)