Segnalibro – La rosa dell’Egeo
e l’incanto spezzato dalla Shoah
Siamo negli anni trenta del Novecento e Solly è un ragazzo sensibile e intelligente che fa parte della piccola comunità sefardita di Rodi, dove gli ebrei in fuga dalla Spagna avevano trovato riparo alla fine del XV secolo. La sua vita scorre lieta, intrecciandosi con i destini di altri personaggi che popolano i tortuosi vicoli della juderia, il quartiere ebraico di Rodi città. Un piccolo mondo, antico e vitale, “un mondo straordinariamente felice”, dove le vessazioni imposte dal fascismo sono stemperate dalla gioia degli affetti e delle tradizioni.
Le fosche nubi di violenza che agitano l’Europa stanno però per travolgere anche la “rosa dell’Egeo”. È la storia al centro di “Una voce sottile”, romanzo storico da oggi in libreria con Giuntina, in cui Marco Di Porto, partendo dalla storia di suo nonno Salomone Galante, ricostruisce la vita di una comunità ebraica ai margini del Mediterraneo nei feroci anni del nazifascismo. Il libro sarà presentato questo pomeriggio a Roma nell’ambito del Festival Insieme (evento con prenotazione obbligatoria). Con l’autore Patrizio Nissirio e Lia Levi.
Una voce sottile
Rodi è un’isola greca, la più grande dell’arcipelago del Dodecaneso. Si trova nel mar Egeo, a poca distanza dalla Turchia, la cui costa si scorge in lontananza dalla punta meridionale, dove sorge Rodi città. Il suo nome deriva dal greco rodhòn, “rosa”, dovuto alla sua natura rigogliosa, alla sua eterna primavera fiorita. In epoca ellenistica fu un importante centro del Mediterraneo, tanto ricca e potente da ospitare il famoso Colosso, una delle sette meraviglie del mondo antico, enorme statua in onore del Dio sole.
A Rodi è vissuta per secoli una comunità sefardita, cioè costituita perlopiù dai discendenti di ebrei cacciati dalla Spagna alla fine del ’400. L’isola allora faceva parte dell’immenso, feroce e al contempo tollerante Impero ottomano, che accolse un gran numero di persone in fuga. Vi prese vita, anno dopo anno, decennio dopo decennio, la juderia, il quartiere ebraico, addossato al porto, fatto di vicoli e casette basse, di sinagoghe e angoli fioriti, di forni comuni per il pane e botteghe dei mestieri e dei commerci, dove si parlava il judeo-espanol, un mix di spagnolo, ebraico e anche arabo, condito di imprecazioni, di memorie dell’esilio e di nostalgia. Per lunghi secoli gli ebrei di Rodi vissero sotto il dominio turco, ogni anno in tutto simile a quello precedente, in pace con le altre due principali comunità: i turchi, musulmani, e i greci, cristiani. La convivenza veniva facile, tanto dolce è sull’isola il soffio del vento, l’onda del mare caldo, il profumo benevolo della natura.
Finché arrivò il ’900 e, con esso, l’Italia e le sue ambizioni coloniali. Nella primavera del 1912 Rodi fu occupata dalle truppe del re Vittorio Emanuele III e del presidente del consiglio Giovanni Giolitti e, dopo secoli, smise improvvisamente di far parte dell’Impero ottomano. Poi, grazie ad accordi successivi alla prima guerra mondiale, nei primi anni ’20 divenne a tutti gli effetti una provincia del regno, e parte dell’Italia fascista quando Mussolini prese il potere.
Salomone, “Solly”, G. vi nacque nel 1919, penultimo di otto figli.
Passando di fronte alla libreria Soriano, capitava di scorgere il profilo di Solly concentrato nella lettura. Se entrava qualcuno, lui alzava gli occhi chiari e chiedeva: «Posso aiutarla?».
Per il commercio non era tagliato. Però ad Avi Soriano, il suo principale, andava bene così: quel ragazzo dal viso gentile, incorniciato tra due orecchie pronunciate, andava a genio ai clienti, dava buoni consigli di lettura, e quelli tornavano. In genere Avi passava alla sera: entrava con passo veloce, il corpo massiccio, elegante nei suoi vestiti italiani. Di origini turche, aveva sposato una donna dell’isola e vi si era stabilito.
«Come andiamo?» chiedeva.
«Oggi bene. Questi prodotti si vendono che è un piacere» scherzava Solly.
Qualche tempo prima Soriano gli aveva detto che per lui i libri non erano nient’altro che merce da vendere, e che non ne aveva mai letto uno.
«Fidati di me. La cultura è bene averla, ma è molto più importante puntare a un sano accumulo di beni».
«Come darle torto, signor Soriano…».
«Chiudi la cassa e metti i soldi nel doppiofondo, domani passo a prenderli» gli intimava svelto, uscendo come un turbine verso un appuntamento al porto, o dall’altra parte della città, o in casa sua, dove riceveva i soci per delle fumate di narghilè durante le quali si parlava d’affari.
A parte i modi sbrigativi del suo capo, a Solly quel lavoro piaceva. Doveva solo chiacchierare con i clienti, tenere i conti in ordine e, al mattino, dare una pulita al pavimento. E poi, oltre ai libri, aveva a disposizione una quantità di albi a fumetti italiani, come l’Intrepido e l’Avventuroso. Li smerciavano usati e riempivano un intero scaffale, proprio a ridosso dell’entrata. Tra tutti i personaggi, il suo preferito era Mandrake, il fenomenale mago in tuba e doppiopetto, che risolveva le situazioni più intricate con la magia buona, con le sue trovate imprevedibili e geniali. Solly poteva passare ore a leggere; veniva letteralmente rapito dai racconti e si distoglieva dalla lettura solo se qualcuno lo interrompeva.
La libreria si trovava nel bel mezzo della cay ancha, la strada che collegava la parte ebraica della città vecchia, con le sue case ammassate una all’altra, a quella turca, imponente con i suoi palazzi monumentali, i minareti alti nel cielo. Era il centro dei commerci e tutti i giorni vi prendeva vita il carchi viejo, il mercato grande, vociante e colorato bazar a cielo aperto.
Era una mattina di primavera e Solly aveva appena finito di sistemare gli scaffali. In quei venti metri quadrati, Avi era riuscito ad affastellare centinaia di volumi, che occupavano i ripiani e ogni angolo del pavimento. Nell’unico spazio libero, accanto all’entrata, erano incastrati una sedia e un tavolo sul quale campeggiava un registratore di cassa moderno, di ferro, pieno di pulsanti. Si affacciò sulla via. Proprio in quel momento passò la signora Benatar, con due bambini appresso. Il corpo dalle forme generose, sempre allegra e indaffarata, abitava proprio dirimpetto a casa loro. Era cresciuto credendola sua zia, anche se era imparentata solo alla lontana con sua madre. Passò sorridendo e, come se fosse nel salotto di casa e non per strada, si avvicinò per dargli un buffetto sulle guance.
«Come stai kerido?».
«Bene Anna».
«Per il seder siamo tutti dai Notrica».
«Mi fa piacere».
Quei seni floridi puntavano dritti verso di lui. La sua mente fu attraversata da pensieri sconvenienti.
«Che c’è, ti sei morso la lingua?» gli chiese dolcemente la signora Benatar.
«No! Sono contento che staremo tutti insieme anche quest’anno».
Marco Di Porto – Una voce sottile
(1 ottobre 2020)