Neilà in piazzetta
Il momento più solenne, verso la fine di Kippur, dopo 23 ore circa di digiuno. È pronta una tensostruttura per coloro che non riusciranno a entrare nel bet ha-keneset che quest’anno non potrà accogliere tutti. Con quale criterio si stabilirà chi resterà fuori? Semplice, l’ordine di arrivo: chi tardi arriva male alloggia, dice il proverbio. Mai come in questo caso, però, le opinioni su cosa sia bene e cosa sia male sono discordanti: all’aperto rischia di fare più freddo (anche se il tempo splendido ci favorisce), però si sa che gli spazi aperti garantiscono minori rischi di contagio e quindi consentono di tenere un minore distanziamento; i sedili all’interno sono più eleganti, ma quelli all’esterno sono più comodi; all’interno c’è la solennità del luogo di culto, ma la facciata del bet ha-keneset offre una sufficiente solennità anche allo spazio esterno.
Personalmente non ho mai avuto dubbi, e se li avessi avuti sarebbero scomparsi di fronte alla prospettiva della faticosa salita al matroneo: sarà forse anche per la mia passione un po’ infantile per tutto ciò che è insolito, dai cibi strani ai luoghi mai visti, ma questa Neilà in piazzetta non me la voglio assolutamente perdere. Oltre all’emozione per la novità provo un misto di soddisfazione e orgoglio: siamo liberi, non dobbiamo nasconderci, possiamo permetterci una funzione per strada: capita a volte che la gente fraintenda le nostre esigenze di sicurezza e ci immagini come una sorta di setta che tiene funzioni chiuse e segrete; fa piacere una volta tanto poter dimostrare che non è affatto così. E poi è bello sentirsi liberi, cittadini a pieno titolo di un paese democratico, che possono tenere le proprie funzioni nella pubblica via, alla luce del sole (finché c’è il sole; e quando tramonterà non lo rimpiangeremo troppo perché con l’arrivo del buio potremo mangiare e bere).
Come è prevedibile i primi posti a riempirsi sono quelli delle donne (che all’interno sarebbero costrette ad arrampicarsi), ma poco a poco cominciano ad arrivare anche gli uomini; amici e parenti si chiamano, cercano di stare tutti dalla stessa parte. Per noi torinesi è strano non essere tutti insieme ma in fin dei conti se fossimo a Roma, a Milano o in qualunque altra città con molte sinagoghe sarebbe la normalità. Ecco, inizia Neilà, possiamo unirci a cantare il ritornello dell’inno iniziale: non ci sentiamo certo ebrei torinesi di serie B dato che a ufficiare qui fuori c’è il Rabbino Capo in persona. Che soddisfazione trovarmi a pochi metri di distanza e poter sentire distintamente tutte le parole! Addirittura a un certo punto mi accorgo che sono la prima ad alzarmi e sedermi e che le persone intorno, uomini compresi, mi stanno imitando: altro che gli anni scorsi quando si riusciva a capire a che punto eravamo solo cercando di interpretare l’onda disordinata di quelli che si alzavano e sedevano molti metri sotto di noi. Finite le selichot, le famiglie cercano come sempre di riunirsi per la benedizione. Tutto come al solito nonostante l’ambientazione insolita. Arriva la commemorazione dei defunti, che quest’anno è stata eccezionalmente spostata in un’ora inconsueta. Ed ecco finalmente il suono dello shofar che segna il termine del digiuno; pare che il nostro sia arrivato circa 30 secondi prima di quello all’interno: non una grande differenza, tutto sommato. Ce l’abbiamo fatta. Con questa divisione momentanea, la Comunità è riuscita ad essere unita, nonostante tutto, nel momento più solenne dell’anno.
Lo sappiamo bene, questo sarà un Kippur che non dimenticheremo tanto facilmente.
Anna Segre