Kertzer e gli imbarazzi vaticani

Il controverso operato di Pio XII al tempo delle persecuzioni antiebraiche resta al centro dell’attenzione degli storici. Una vicenda che la recente apertura degli archivi apostolici vaticani permetterà di inquadrare in modo forse più esaustivo rispetto a quanto avvenuto finora. Anche in questa nuova fase di studio e approfondimento sulle carte non mancano però gli attacchi strumentali contro chi cerca di fare, con rigore e professionalità, il proprio lavoro. Come quello, lanciato nelle scorse settimane, nei confronti del Premio Pulitzer David Kertzer. A scriverne per Pagine Ebraiche sono Roberto Benedetti e Tommaso Dell’Era.

Roberto Benedetti è cultore della materia e dottore di ricerca in Storia moderna e contemporanea presso La Sapienza-Università di Roma. È caporedattore della rivista scientifica www.giornaledistoria.net, di cui è uno dei fondatori. Collabora con numerosi enti come ricercatore indipendente.

PhD in Storia del pensiero politico, delle istituzioni politiche e filosofia politica (Roma, La Sapienza), Tommaso Dell’Era è ricercatore di Filosofia della Politica presso l’Università degli studi della Tuscia e docente presso il Master Internazionale di II livello in Didattica della Shoah dell’Università degli Studi di Roma Tre. Si è formato in Italia e all’estero (Russia e Israele). Si occupa attualmente di razzismo e antisemitismo durante il periodo fascista in chiave comparata, di analisi del linguaggio politico e della propaganda politica, di gender studies in relazione al fenomeno degli abusi sui minori nella Chiesa cattolica.

Pio XII, il Vaticano contro Kertzer

Che cosa succede in Vaticano?
Perché venerdì 4 settembre si è scelto di dedicare l’intera quarta pagina de L’Osservatore Romano – principale organo di stampa, anche se non ufficiale, della Santa Sede – ad una critica serrata di un articolo scritto qualche giorno prima dallo storico statunitense David I. Kertzer?

L’articolo di Matteo Luigi Napolitano, professore di Storia delle relazioni internazionali presso l’Università degli Studi del Molise, si intitola Per una nuova democrazia storiografica ed è una lettura interessante sotto molti punti di vista. L’argomento trattato è “l’apertura degli archivi su Pio XII e i pregiudizi da sfatare” ma per comprenderne appieno il significato occorre analizzare brevemente il contesto da cui nasce e fare dunque un passo indietro di qualche mese.

Il 2 marzo 2020 gli archivi vaticani hanno aperto alla consultazione pubblica i fondi archivistici relativi al pontificato di Pio XII. La notizia era stata diffusa circa un anno prima e aveva creato una grande e giustificata fibrillazione all’interno della comunità scientifica degli storici di tutto il mondo: finalmente, dopo decenni di richieste, chilometri di documentazione vaticana sarebbero stati resi accessibili agli studiosi.

In realtà, una piccola parte di questa immensa documentazione era stata messa a disposizione già a partire dal 1965, grazie al lavoro di una speciale commissione vaticana, nominata per ordine di papa Paolo VI, che aveva avuto lo specifico incarico di pubblicare tutti i documenti che potessero aiutare a stemperare le insistenti e insopportabili accuse di indifferenza al dramma della Shoah, quando non addirittura di contiguità con i regimi fascisti e nazista. In poco meno di venti anni di lavoro serrato la commissione riuscì a dare alle stampe ben dodici corposi volumi degli Actes et Documents du Saint-Siège rélatifs à la seconde guerre mondiale (Adss, 1965-1981), contenenti la trascrizione di una grande quantità di carte provenienti proprio dalla Segreteria di Stato vaticana. Fin da subito, però, la comunità scientifica aveva iniziato a richiedere a gran voce l’apertura degli archivi per verificare che tipo di selezione – qualitativa e quantitativa – fosse stata fatta dalla commissione vaticana.

Veniamo ora al nocciolo della questione, ovvero l’attacco indirizzato da Napolitano su «L’Osservatore Romano» all’articolo The Pope, the Jews, and the Secrets in the Archives recentemente pubblicato sul periodico statunitense «The Atlantic» e firmato da David I. Kertzer.

David Kertzer, premio Pulitzer nel 2015 per il suo The Pope and Mussolini (Il patto col diavolo, nella edizione italiana per i tipi di Rizzoli), è stato tra i primi al mondo che – sfidando la pandemia incipiente – ha iniziato a visionare insieme al suo gruppo di ricerca e ai suoi colleghi e collaboratori, tra i quali rientrano gli autori di questo articolo, l’immensa mole di documenti finalmente aperta alla consultazione all’inizio di marzo 2020.

Nell’articolo per «The Atlantic» Kertzer fornisce ampie anticipazioni di un saggio scientifico di prossima pubblicazione, dedicato allo scandalo del rapimento e del battesimo forzato di due fratelli ebrei, Robert e Gérald Finaly, che tenne banco sui quotidiani di tutto il mondo all’inizio del 1953 e che guadagnò alla Santa Sede un serio danno di immagine: la storia è nota ma l’articolo di Kertzer ne affronta aspetti finora sconosciuti, emersi dallo studio di carteggi inediti consultati proprio negli archivi vaticani del pontificato di Pio XII.

Pur trattandosi unicamente di un’anticipazione pubblicata in una rivista di larga diffusione, priva quindi del necessario apparato di note critiche e approfondimenti bibliografici e documentali, il quotidiano della Santa Sede decide di non attendere la pubblicazione della versione finale del saggio, ma di affidare allo storico Matteo Luigi Napolitano una replica serrata già a questa versione giornalistica: una scelta discutibile che in parte però può giustificare quella serie di letture approssimative e sostanzialmente errate che diversamente sarebbero difficili da spiegare e che qui cercheremo pertanto di confutare.

Napolitano inizia il suo ragionamento sostenendo che la tesi portante dell’articolo di Kertzer pubblicato su «The Atlantic» sia quella che, citiamo per precisione, «il silenzio di Pio XII determinò il triste destino degli ebrei nei Lager, condannando Pacelli ad una damnatio memoriae nei tempi a venire». Da dove, nella lettura dell’articolo di «The Atlantic», Napolitano derivi questa sua sintesi è, in effetti, un mistero, dal momento che questa affermazione sarebbe irricevibile anche se pronunciata semplicisticamente da un qualunque studente alle prime armi.

Altrettanto grave, sul piano scientifico, è l’accusa surrettizia lanciata da Napolitano che ipotizza l’esistenza di una roadmap che vorrebbe provare «la logora tesi del silenzio e dell’antisemitismo di Pio XII», cui aderirebbe Kertzer il quale, dunque, mosso da preconcetti già abbondantemente confezionati, approccerebbe alla nuova documentazione d’archivio al solo fine di piegarla alle sue tesi. Si tratta di un’accusa offensiva che comunque tralascia il particolare che Kertzer, nel suo articolo, non ha attribuito posizioni antisemite a Pio XII.

L’obiettivo è quello di arrivare a sminuire due documenti molto importanti citati da Kertzer ovvero una Nota verbale sulla situazione degli ebrei in Italia, stilata dal gesuita Pietro Tacchi Venturi, storico intermediario tra Santa Sede e regime, alla metà del mese di dicembre 1943 e un promemoria contenente le critiche che a questo documento vennero mosse il 20 dicembre da mons. Angelo Dell’Acqua, minutante della Segreteria di Stato. I due scritti vengono presentati da Kertzer come prova di una persistenza del pregiudizio antiebraico che caratterizza la cerchia dei più fidati collaboratori di Pio XII, prima, durante e dopo la guerra, e sono inseriti in un più ampio contesto storico – che arriva appunto fino alla vicenda dei fratelli Finaly e che li rende particolarmente difficili da metabolizzare. Il primo era stato in parte pubblicato nei citati Actes et Documents du Saint-Siège sebbene in una versione pesantemente depurata, mentre Kertzer ne offre ora, in un’appendice all’articolo, la trascrizione integrale, in modo da facilitare il confronto con il testo edito nel nono volume degli Actes. Poche settimane dopo il fatidico 16 ottobre, padre Tacchi Venturi proponeva un intervento presso le autorità tedesche affinché venisse conclusa la campagna di violenze contro gli ebrei italiani. Anche se apparentemente potrebbe sembrare il contrario, la nota non mostrava alcuna forma di indulgenza verso il popolo ebraico, soprattutto se si tiene conto, come sottolinea Kertzer, del passaggio nel testo in cui si elogia il razzismo italiano e si legge: «Dovrebbe anche tenersi presente che in Italia con la citata legge razziale del 1938, rigorosamente osservata, fu già provveduto ai gravi indiscutibili inconvenienti causati dal giudaismo quando arrivi a dominare o a godere di molto credito in una nazione». Il commento di Dell’Acqua poi è freddo, sprezzante e spiazzante, come si legge nella trascrizione integrale del documento proposta da Kertzer, e porta tra l’altro alla bocciatura della proposta di Tacchi Venturi.

Correttamente nell’articolo di «L’Osservatore Romano» viene sottolineato come, secondo Kertzer, «la collana edita degli Actes et Documents du Saint-Siège […], rivela le dolorose omissioni dei curatori (i quattro padri gesuiti Pierre Blet, Robert Graham, Angelo Martini e Burckhart Schneider). Tali omissioni sarebbero chiare nel IX volume, che riguarda le vittime di guerra nel 1943 e in particolare della razzia al Ghetto di Roma». Ma Napolitano, che non può negare le evidenti differenze tra i testi editi e gli originali d’archivio, nel tentativo di svalutare la scoperta del collega statunitense giustifica la presenza di queste discordanze con un ragionamento farraginoso e capzioso, a tratti offensivo per la stessa tradizione archivistica vaticana.
Lo studioso cattolico attribuisce infatti una palese debolezza alle tesi di Kertzer, introducendo la seguente motivazione: «Gli Adss videro la luce in pieno “caos archivistico” vaticano, per rispondere alle prime polemiche sul “silenzio” di Pio XII. I curatori dovevano dare agli studiosi “l’altra campana” della storia di Pio XII. La situazione del 1965 non è dunque neppure lontanamente paragonabile a quella del 2020. Oggi gli archivi vaticani ci consentono di trovare subito le carte desiderate; nessuno avrebbe ottenuto altrettanto negli anni Sessanta. Di conseguenza, non c’è dolo nella raccolta vaticana, ma solo il classico limite che s’incontra in archivi non ancora ordinati, situazione non rara. […]».

Napolitano tenta un’impervia arrampicata sugli specchi ma il ragionamento è minato alle basi: è infatti innegabile che la commissione vaticana abbia avuto modo di vedere i due testi trascritti da Kertzer perché alla pagina 611 del nono volume degli Actes la nota di Tacchi Venturi è citata e trascritta nei passi ritenuti salienti (poche righe in confronto alle sette pagine che compongono il testo originale) e il promemoria di mons. Dell’Acqua è citato en passant nella trascrizione delle poche parole con cui mons. Tardini gli invia in visione il testo del gesuita. Peraltro i brevi passi scelti e trascritti negli Actes risultano essere innegabilmente quelli meno compromettenti dal punto di vista ideologico, tanto da riuscire a stravolgere completamente il significato della nota del gesuita.
Si potrebbe poi addirittura sospettare che Napolitano abbia intenzione di giustificare proprio quella selezione parziale, come conseguenza logica della premessa fatta poco prima quando ricorda che la commissione guidata da Blet nel 1965 aveva il compito di far ascoltare “l’altra campana” alla comunità degli storici. Aggiungiamo inoltre che non risulta assolutamente vero che i documenti oggi siano rintracciabili con la facilità di cui parla Napolitano. Attualmente, grazie ad un formidabile lavoro di riordino dei fondi, sono stati prodotti indici molto descrittivi e vari altri strumenti di corredo che facilitano il compito di individuare le carte; ma gli indici vanno studiati, vanno compresi e i documenti attentamente ricercati. Di contro, nel 1965, la Segreteria di Stato vaticana aveva, con ogni probabilità, posto la documentazione di venti anni prima nel suo archivio di deposito e chiunque abbia avuto anche una minima infarinatura di discipline archivistiche sa perfettamente che i titolari e i registri di protocollo devono essere strutturati in modo tale da garantire rapidità e precisione di accesso ai documenti che servono per la vita quotidiana dell’ente produttore, cosa ancora più valida per la Segreteria di Stato vaticana, cuore pulsante della Santa Sede. Dunque, paradossalmente, sarebbe stato più facile reperire i documenti nel 1965 che non nel 2020 e il “caos” archivistico – sicuramente reale per la gran parte degli organi periferici dello Stato vaticano, come delegazioni, nunziature e commissioni – sembra un’attenuante poco sfruttabile.

L’apice dell’operazione di mistificazione dell’articolo di Kertzer da parte di Napolitano si tocca però nel passaggio in cui si legge che lo storico statunitense «afferma che il Vaticano adottò sempre un linguaggio antisemita nel preparare i suoi documenti ufficiali». Come detto, Kertzer non parla di linguaggio antisemita e non può aver affermato che il Vaticano abbia adottato sempre questo tipo di linguaggio nei suoi documenti ufficiali: parla invece di storia dell’antigiudaismo della Chiesa cattolica. Inoltre quelli che vengono analizzati all’interno dell’articolo di Kertzer per «The Atlantic» e che sono per la gran parte inediti, sono naturalmente documenti ufficiali ma non nel senso che vorrebbe lasciare intendere Napolitano, ovvero pubblici, perché si tratta in effetti di comunicazioni interne, dalle quali si evince il reale atteggiamento di eminenti esponenti dell’entourage pacelliano rispetto al mondo ebraico e allo sterminio in atto nel corso del periodo bellico.

Un altro passaggio dell’articolo di Napolitano risulta particolarmente grave, e spiace notare che un quotidiano di peso quale L’Osservatore Romano, in evidente difficoltà rispetto alla questione storiografica aperta da David Kertzer, se ne faccia portavoce. Si tratta del punto in cui Napolitano è costretto a riportare le parole agghiaccianti di mons. Dell’Acqua, trascritte nell’appendice dell’articolo per «The Atlantic» e peraltro stigmatizzate anche dallo storico cattolico Andrea Riccardi, in un recente intervento sul «Corriere della Sera» del 29 agosto scorso. Nel documento del 20 dicembre 1943 si legge infatti: «Una cosa è la persecuzione degli ebrei che la Santa Sede giustamente deplora, soprattutto quando è condotta con certi metodi; e ben altra cosa è diffidare dell’influenza degli ebrei: questo può essere cosa assai opportuna».

Le parole con cui Napolitano commenta questa frase lasciano francamente sconcertati: «Occorreva dunque distinguere: diffidare degli ebrei non significava tacere sulle persecuzioni naziste. Era forse questo un atteggiamento antisemita?». Secondo Napolitano le parole di Dell’Acqua sarebbero state indice forse di una qualche carità cristiana espressa secondo stilemi linguistici che sfuggono evidentemente ad un lettore occasionale che, invece, pur non leggendo la sfumatura antisemita, coglie un inquietante e innegabile pregiudizio antiebraico e lo colloca storicamente nell’arco cronologico dei due mesi successivi alla retata del 16 ottobre 1943 e alla ferita che la deportazione degli ebrei romani aveva aperto.

Il j’accuse contro Kertzer continua a dibattere su questi due scritti del dicembre 1943, praticamente fino alla fine dell’articolo cercando di minimizzare la loro importanza con l’assunto che essi non arrivarono mai nelle mani del pontefice. Ma anche in questo caso il punto è un altro e, sebbene al momento non ci siano prove di questo ultimo passaggio, è comunque rilevante il fatto che i più importanti collaboratori di Pio XII, di cui il pontefice si fidava e ai quali delegava questioni di massima importanza e delicatezza, ovvero mons. Domenico Tardini, il card. Luigi Maglione, mons. Dell’Acqua e il gesuita padre Tacchi Venturi, avevano maneggiato, letto e scritto o postillato quei documenti.

Poche righe vengono dedicate al caso Finaly che è invece il centro dell’articolo di Kertzer. Eppure, Matteo Luigi Napolitano di cose da scrivere ne dovrebbe avere su un caso come quello del rapimento e del battesimo forzato dei due fratelli Robert e Gérald perché proprio lui, nel 2005, insieme ad Andrea Tornielli, ne scrisse in un libretto, una sorta di instant book, uscito in tutta fretta dopo che lo storico della Chiesa Alberto Melloni, nel dicembre del 2004, aveva dato al «Corriere della Sera» ampie anticipazioni del ritrovamento di documenti che dimostravano l’esistenza di istruzioni ben precise da parte del S. Offizio nella gestione del caso che era divenuto nel 1953 uno scandalo di proporzioni internazionali, al pari di quello del 1858 di Edgardo Mortara. In generale, la questione del salvataggio degli ebrei da parte degli istituti cattolici – fiore all’occhiello delle tesi apologetiche del pontificato di papa Pacelli -, è assai delicata e inizia a presentare aspetti spinosi, man mano che le carte vaticane vengono passate al vaglio della ricerca. Da un promemoria trovato nell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’ex S. Offizio, allegato alla “positio” (il fascicolo) dei fratelli Finaly scopriamo, ad esempio, nuovi dettagli di una vicenda – già nota alla storiografia sul tema – che comincia nel 1944, a Roma, quando un donna ebrea riuscì a trovare ospitalità per sé e per i suoi due bambini presso le Francescane Missionarie di Maria nella loro casa di via della Balduina. Ricevette, volontariamente, il battesimo e lo fece impartire anche ai figli. Nel 1945 la donna uscì dalla casa delle religiose, lasciandovi i bambini. Tornata alla religione ebraica, nel 1946 si era mossa per richiedere la restituzione dei figli. La donna era tornata in via della Balduina con i rappresentanti dell’orfanotrofio ebraico insistendo per avere i figli e le religiose avevano dato risposte evasive, in attesa di istruzioni superiori. Alla fine, per cause di forza maggiore (ovvero la richiesta da parte del genitore), la Santa Sede ritenne opportuno cedere ma il malcontento era palese. Infatti, in un appunto si legge che nel corso dell’udienza del 6 novembre 1947, il S. Padre, tutto considerato, aveva stabilito che si chiudesse velocemente la diatriba nel modo seguente: «Considerato che i diritti della Chiesa per tutelare la fede dei bambini in caso non potrebbero farsi valere soltanto per la forza maggiore di chi potrebbe impedirlo si possono riconsegnare i due fanciulli, rimproverando alla madre la sua slealtà e contestandole che essa non ha diritto di turbare la coscienza delle bambine [sic] dal possesso della vera fede alla quale Ella stessa liberamente le [sic] addusse». All’interno del fascicolo sono poi presenti i richiami ad altri casi analoghi: infatti, nel corso dello studio per la soluzione della vicenda Finaly i consultori del S. Offizio furono incaricati di reperire la documentazione relativa a procedimenti simili esaminati anche nel XIX secolo, operazione che fu rapidamente condotta nonostante il “caos archivistico” di cui parla Napolitano.

Si tratta di un evidente problema di longue durée e parte integrante del pregiudizio antiebraico di cui si è parlato all’inizio e che non può non essere preso in considerazione in una valutazione di tutte le scelte politiche e diplomatiche e anche mediatiche del pontificato pacelliano e dei pontificati successivi. Un tema che, per inciso, è stato analizzato proprio da Kertzer (con coautore Benedetti) anche in un articolo scientifico pubblicato alcune settimane fa sulla prestigiosa rivista «Journal of Modern Italian Studies» e dedicato al supporto della stampa cattolica alla causa dell’Asse nel corso del secondo conflitto mondiale, ignorato da Napolitano ma cui si rimanda per ulteriori approfondimenti.

Occorrerebbe, insomma, collocare nelle giuste caselle temporali tutti i tasselli del mosaico per avere il quadro completo di ogni vicenda ed evitare quei “salti logici” che Napolitano denuncia a carico di Kertzer ma cui ricorre abbondantemente, ad esempio quando parla della folgorante carriera di mons. Dell’Acqua all’interno della Curia, sotto i due pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI, e scrive: «È mai pensabile che il “Papa buono” avrebbe elevato alla dignità episcopale Dell’Acqua se avesse minimamente sospettato di sue inclinazioni antisemite? È mai pensabile che il Paolo VI della Nostra Aetate avrebbe elevato alla porpora un antisemita, il 26 giugno 1967, destinandolo all’importante funzione di cardinale Vicario di Roma?».

Cioè: il papa buono e papa Montini non avrebbero mai potuto fare una scelta errata e non avrebbero mai puntato su un prelato su cui gravassero ombre. A ben guardare, però, ribaltando il problema e analizzandolo dal punto di vista scelto da Kertzer, il paradigma della continuità istituzionale funziona ugualmente e forse anche in maniera più logica. Napolitano, che passa al setaccio con giusto rigore filologico le trascrizioni dei due documenti del 1943 in appendice nell’articolo del «The Atlantic», sceglie invece di non analizzare tutti gli altri, tra cui uno firmato da Giovanni Battista Montini al termine della vicenda Finaly nell’agosto 1953 che è illuminante. In una lettera indirizzata al nunzio apostolico a Parigi, mons. Paolo Marella, Giovanni Battista Montini esprime tutto il suo disappunto per come si è conclusa la vicenda e scrive tra l’altro: «La Corte di Cassazione […] ha deciso e la sua sentenza è giuridicamente “très solide” e sfugge “a toute critique sérieuse”. Così dicono i giuristi di Lyon […]. Ma non bisogna dimenticare che la detta sentenza prescinde affatto – non ne era competente – da un duplice diritto che è stato violato: quello della Chiesa e quello degli stessi ragazzi di non essere esposti al pericolo dell’apostasia. […]»

Cosa sta succedendo quindi in Vaticano?

In realtà, nulla di nuovo.

Si sta cercando di rispondere a quelli che vengono reputati attacchi diretti all’immagine di un pontefice il cui processo di beatificazione è fermo da anni e che, anzi, recentemente è stato congelato ufficialmente anche dalle dichiarazioni di papa Francesco nel maggio del 2014, quando si è trovato a sottolineare che pesa su tutto l’assenza di un miracolo.

Su un punto comunque possiamo convenire con le tesi di Napolitano, ovvero quando scrive che su «Pio XII siamo agli albori di una nuova stagione di studi che ci auguriamo lunga e proficua» e quando aggiunge che «aiuterà di certo l’efficienza con cui gli archivi vaticani sono accessibili agli studiosi» e la «“democrazia digitale” che si vive all’archivio storico della Segreteria di Stato, dove ogni studioso accede a tutte le carte su Pio XII in tempo reale dal suo terminale, tagliando così i tempi di richiesta e di attesa dei dossier e ottimizzando quindi il suo lavoro». Per completezza di informazione, aggiungiamo solo che colui che per primo ha posto in evidenza questa avveniristica scelta dell’Archivio Storico della Seconda Sezione della Segreteria di Stato è stato proprio David Kertzer, in un’intervista pubblicata il 4 maggio 2020 sulla rivista scientifica online Giornale di Storia.

Non solo di questo però si tratta: la democrazia di accesso alle fonti d’archivio vaticano si esplica anche attraverso la possibilità – concessa dagli archivi vaticani già negli anni passati e rinnovata e potenziata nell’attuale periodo di pandemia e di forti limitazioni agli spostamenti degli studiosi – di accedere ad un efficiente e velocissimo servizio di copie digitali della documentazione conservata, uno dei punti di forza della gestione dell’Archivio Apostolico Vaticano. A patto che si sappia dove e cosa cercare, naturalmente.

Ci augureremmo che l’ecumenico titolo scelto da «L’Osservatore Romano», Per una nuova democrazia storiografica, fosse un auspicio sincero e non semplicemente lo slogan sotto il quale mascherare l’attacco scomposto a presunti “pregiudizi da sfatare” in maniera preventiva e censoria.

Perché, in ultima analisi, non si tratta di schierarsi su due fazioni contrapposte, formate rispettivamente dagli apologeti di Pio XII e dai suoi detrattori. Non si tratta nemmeno di fare il computo tra quanti documenti pesano a favore di una tesi e quanti possano essere portati a supporto dell’altra. I contorni non sono netti, il colore prevalente non è facilmente riconoscibile. La persistenza di un pregiudizio antiebraico, naturale portato di una teologia secolare, non è incompatibile, ad esempio, con la decisione di mettere in moto la più vasta rete di soccorso conosciuta nel periodo bellico. Lo sconfinato archivio della Commissione Soccorsi – oggi a disposizione degli studiosi – ne è una monolitica testimonianza: fiumi di denaro, medicinali, aiuti materiali di ogni sorta distribuiti fin dal settembre 1939 alle vittime della guerra e delle persecuzioni razziste. Sarebbe impossibile non riconoscere i meriti dell’attività caritativa della Santa Sede nel corso del periodo bellico; ma è altrettanto inevitabile considerare la persistenza di un pregiudizio antiebraico radicato prima, durante e anche nel periodo successivo alla conclusione della tragedia della Seconda guerra mondiale, come inevitabilmente dimostrano la vicenda dei fratelli Finaly e i suoi addentellati. Il pregiudizio riesce a convivere per decenni con la carità e questo non può e non deve stupire chi conosca la storia della Chiesa cattolica.

Naturalmente questa ricerca di Kertzer, come ogni ricerca storica, non è definitiva. Dagli archivi vaticani emergono con frequenza quotidiana nuovi documenti che attendono di essere esaminati nell’ambito di un sano dibattito intellettuale che deve necessariamente essere libero dalle contrapposizioni dicotomiche. Questo è il vero sale della “democrazia” storiografica.

Roberto Benedetti e Tommaso Dell’Era