Sukkot e la nostra precarietà
Una caratteristica della Sukkà, dove gli ebrei devono trascorrere i sette giorni della festa di Sukkot, è quella di essere precaria e non legata al terreno dove poggia.
Il motivo è che durante la festività di Sukkot, nonostante sia definita “zeman simchatenu – epoca della nostra gioia” perché in essa si celebra l’abbondante raccolto del prodotto come simbolo di benedizione divina, non dobbiamo mai cessare di pensare alla precarietà della nostra vita.
Infatti, come ci comanda la Torah nel libro di Devarìm, non abbiamo alcun diritto, anche se siamo particolarmente ricchi e benestanti, di pensare che è soltanto per nostro merito che ci troviamo in quella condizione, bensì è il Signore che vuole premiarci o metterci alla prova nel vedere ciò che facciamo per il nostro prossimo.
La Sukkà rappresenta la semplicità e un luogo di ristoro dal duro lavoro dei campi; ma è anche esposta facilmente alle varie condizioni atmosferiche.
Trovandoci in piena stagione autunnale, può esserci il sole e il caldo ma anche il vento e la pioggia.
Quindi, nella seconda possibilità, basta un soffio di vento più forte per distruggere la nostra Sukkà. Allo stesso modo avviene per la nostra vita: benché ci trovassimo nella migliore delle condizioni e nel benessere assoluto, il Signore, in base al nostro comportamento può farci impoverire o arricchire in un soffio.
Sukkot quindi ci porta, dopo aver trascorso un periodo penitenziale come Rosh ha shanà e Kippur, a riflettere sui possibili scenari che si dispongono davanti ai nostri occhi: godrai di un buon raccolto e gioirai, se saprai meritarlo e farai gioire anche tuo fratello che ha bisogno del tuo aiuto.
Moadim le simchà.
Rav Alberto Sermoneta, rabbino capo di Bologna