Oltremare – Sukkot
tra ospiti e felicità

Se l’ospitalità è un tratto distintivo fino a quasi inevitabile delle culture mediorientali (non solo queste, ma cominciamo a guardare l’orticello accanto a casa prima di arrivare all’estremo oriente), tanto che richiedono complessi rituali che se non rispettati possono portare a spiacevoli incomprensioni fino a sfociare in vere e proprie faide, ecco se tutto questo è norma anche qui in Israele, da venerdì siamo entrati per giunta nella festa in cui ospitare è un obbligo, così come essere felici.
Partiamo dalla parte più difficile: Sukkot ci è ordinata (si: ordinata, come ogni altra festività e ogni altro rituale sociale e personale) come festa in cui si deve essere felici. Dici poco. Se chiedete a qualunque Brezlev, balzellante biancovestito, un buon ebreo dovrebbe essere felice sempre, in Uman come in ogni luogo del mondo (ma in Uman di più, salvo in questo anno pestilenziale). Ma Brezlev a parte, tutti sanno che Sukkot, la festa nella quale si deve lasciare il posto sicuro e caldo proprio quando l’autunno incalza, e risiedere per una settimana nel freddolino umido della capanna, di solito è una festa in effetti molto allegra. Esiste un problema intrinseco nel fatto che questa felicità ci viene imposta, ma fra la costruzione delle capanne – tragicomica anche nelle migliori famiglie, e il suo addobbamento, che coinvolge la creatività estrema di tutti, grandi e piccoli, alla fine i modi per spassarsela si trovano.
Quanto all’uso di ospitare sotto la fragile capanna famiglia, amici, amici di amici e via allargando, è chiaro che chi fa una Sukkah in balcone o in giardino ha dei limiti oggettivi mentre le sinagoghe o yeshivot, ma anche gli alberghi, possono sbizzarrirsi mettendo su vere e proprie depandances fino a migliaia di posti, e allora non c’è quasi limite all’ospitalità, anche se meno personale.
In quest’anno di pandemia, mai avremmo pensato di passare un’altra festa tutti separati, ciascuno nel suo micronucleo e guai a mischiarsi con bacilli e respiri altrui. E invece, eccoci con le capanne pronte, le porte spalancate e nessuno che può venire a visitarci. Personalmente, ho trovato il modo di ospitare, virtualmente almeno, un gran numero di persone, con le lezioni in ricordo di mio zio Amos Luzzatto z’l che sono iniziate ieri sera. E spero che molti altri qui in Israele stiano facendo cose simili, mettendo la tecnologia al servizio della mitzvah. Posso certificare che ospitare via zoom contribuisce a innalzare di molto anche la simchà (felicità), che per obbligata che sia va molto cercata durante questo secondo, faticosissimo lock down.

Daniela Fubini