Amor d’imprecisione

Un importante quotidiano nazionale, nel riferirsi al piano di pace del Presidente USA Donald Trump per porre fine al conflitto israelo – palestinese (“Peace to prosperity. A vision to improve the lives of the Palestinian and Israeli People. January 2020”), asserisce che “non era pensabile che un popolo rinunciasse alla terra in cambio di dollari”.
Il resto dell’articolo, pur con qualche vistoso abbaglio, appare bilanciato, tranne la cennata frasetta, che ci appare tutt’altro che innocua perché un popolo senza terra sarebbe condannato a girovagare per il mondo, come gli ebrei dopo l’esilio, in cambio di denaro, poco o molto che sia. Certo, per gli ebrei è stato peggiore, perché l’Imperatore Tito non solo non ha presentato una proposta, ma si è pure ben guardato dall’offrire dei sesterzi e, non pago di tanta ignominia, li ha pure cacciati e depredati. Beninteso, altrettanto mostruoso sarebbe rimanere nella terra, però a titolo precario o comunque con un titolo diverso da quello che deriva dalla propria cittadinanza. Poco importa che nei diciannove anni intercorsi fra la nascita d’Israele e la Guerra dei Sei Giorni si siano ben guardati dal rivendicarla, perché chiederla ad Israele deve suscitare molte più emozioni che chiederla alla Giordania ma, si sa, come c’è la temperatura percepita, che si affianca a quella reale, c’è pure il patriottismo percepito.
Qui, a proposito dell’articolo in questione, si presenta un problema inverso rispetto a quello della lettura, che riguarda la distinzione fra chi sa soltanto leggere e chi è capace di assimilare un testo carpendone il senso perché, in questa sede, la prospettiva muta, spostandosi dalla parte non del lettore bensì dell’autore.
Questo va detto, perché le cose si vanno complicando. Non si tratta più di una questione d’interpretazione (letterale, logica, storica, sistematica e così via) che riguarda il testo in sé oppure l’idea che l’autore se ne sia fatta, bensì la sua visione dell’idea che se ne potrebbe fare il lettore.
Poiché quest’ultimo, tout d’abord, dopo aver pagato i due euro del giornale, non è tenuto ad assumersi particolari compiti ermeneutici, si suppone che si accontenti di prendere atto della sola rinuncia alla terra. Diventa ozioso, a questo punto, domandarsi se si tratti di una rinuncia a diritti quesiti oppure eventuali, a diritti, diciamo, consolidati, oppure virtuali o futuri. Questo succede perché disquisire di rinuncia alla terra vuol dire tutto oppure niente, ed è un concetto che spazia dall’abdicazione dalla titolarità allo sfratto esecutivo, senza che sia dato fissarne un orizzonte certo. Quando lo si ricollega ai soldi, però, ecco che il concetto avvia una serie di rimandi culturali, nessuno dei quali può aspirare alla popolarità.
Sennonché, dando uno sguardo al citato piano Usa, si legge che “Land swaps will provide the State of Palestine with land reasonably comparable in size to the territory of pre-1967 West Bank and Gaza”. Quindi, ciò che emerge dal piano – sul quale si può essere legittimamente favorevoli o sfavorevoli, ma che doveva essere negoziato e discusso – appare totalmente diverso dalla citata rinuncia alla terra.
Ora, se si scrive che il piano Trump, visto in modo favorevole dal governo israeliano (“a great plan for Israel, it’s a great plan for peace”, copyright Bibi Netanyahu) comporta la rinuncia alla terra in cambio di dollari, cosa può pensare il lettore se non che il governo israeliano è disumano? Lo è? Ci siamo posti così delle domande alla quale a noi stessi riesce difficile rispondere, un poco come chi tende una trappola ma è il solo a cascarci, tanto da virare su una domanda più semplice: perché non si cerca, soprattutto quando ci si rivolge a milioni di lettori, di essere un poco più precisi?

Emanuele Calò, giurista

(6 ottobre 2020)