La donna nell’ebraismo

A qualcuno la donna piace seduta in ultima fila. La donna in veste di testimone passivo, la donna astante. E a qualche donna questo ruolo sembra piacere, evidentemente.
Che l’ebraismo riservi alla donna una funzione domestica piuttosto che liturgica è innegabile, ma che questo significhi relegarla alla stregua di un puro strumento e negarle la partecipazione al rito pubblico è cosa che è lecito, almeno, dibattere.
Accade probabilmente un po’ dovunque che ogni giorno dell’anno si accendano discussioni su ciò che una donna può o non può fare durante una cerimonia religiosa pubblica. Molte cose, in una comunità a conduzione ortodossa, sono date per scontate, altre, invece, dipendono dal livello culturale dei presenti, e talora dalla loro interpretazione, o misinterpretazione, delle tradizioni acquisite. Ciò che, tuttavia, sarebbe forse utile evitare, è la superflua restrizione dei molti divieti e delle molte siepi già esistenti. Un concetto utile al discorso è quello di ‘bal tosif’, ossia la proibizione (mitzvah negativa) di aggiungere alcunché alle leggi (già molte) della Torah.
In questi giorni di Succoth, ormai da diversi anni, ci si pone l’interrogativo se una donna possa compiere la mitzvah del lulav. Magari molto tempo fa è passato per la comunità un rabbino che ha sussurrato un no, che la donna non deve compierla, e qualcuno ha inteso quel ‘non deve’ in senso restrittivo, ossia ‘non ha il permesso di’, anziché ‘non è obbligata a’. In effetti, la donna ne è esente, come è esente dalle mitzvoth che sono legate al tempo, a orari determinati, occupata com’è – secondo canoni di altri tempi – in onorevoli faccende casalinghe e familiari. Si dibatte tuttavia se l’esenzione significhi divieto oppure semplicemente assenza di necessità e di obbligo.
I Maestri dibattono ampiamente e a fondo l’argomento. Il concetto di bal tosif, si precisa, induce a pensare che vietare il lulav alla donna sia un’aggiunta alla Torah di un divieto che la Torah stessa non prevede. E in effetti, eminenti autorità rabbiniche convengono che sia opportuno incoraggiare la donna a compiere la mitzvah. Del resto, la donna è esente dalla tefillah – la preghiera – , e dalla lettura dello Shema’, in particolare, così come dallo studio della Torah, ma non le è certo proibito praticarli.
Dunque può accadere, in una sinagoga, che il rabbino offra il lulav alla donna e che la donna, magari per eccesso di rigore e per malinteso senso della adesione a regole di massimo rigore, lo rifiuti.
A questo punto, la discussione sul bal tosif e sul lulav perde decisamente di interesse. E assume maggior rilievo, invece, la considerazione di una comunità per il ruolo del proprio rabbino, Maestro, guida. Assume rilievo, anche, il rispetto per la persona e per la figura del rabbino, e la disponibilità a recargli offesa lasciandolo con il lulav sospeso in mano, a mezz’aria. Per qualcuno, il Kippur è passato per nulla.
Ho sempre pensato che, particolarmente in una comunità che ha abbandonato da molto tempo la consuetudine dello studio e della cultura dei testi e si affida invece alle conoscenze superficiali e a usanze locali mal applicate, distaccate dallo studio delle ragioni e delle radici, alla figura del rabbino dovrebbe essere riconosciuta la sua funzione centrale e fondamentale di guida. Impera altresì il gusto per la contestazione insussistente, che non è dibattito fra pari, bensì polemica vuota, priva di fondamento e di consapevolezza.
Tutto ciò avviene all’interno di una comunità che cessa di essere comunità nel momento stesso in cui rifiuta l’autorità rabbinica per affermare il valore dell’individuo, specie se poco preparato. Perde qualsiasi valore l’imperativo di farsi un Maestro da seguire e con cui studiare – ”asé lechà rav’. Ciascuno si fa le regole da sé, secondo il proprio gusto personale, o in base alla simpatia che nutre per il rav del momento. Nulla di più deleterio per lo spirito che dovrebbe tenere insieme una comunità ebraica. Quando il personalismo prevale sullo spirito di collettività la comunità si frantuma, e l’individuo che contribuisce alla frantumazione e si isola se ne assume la responsabilità. Prenderne consapevolezza può forse servire a rendere più utile il prossimo Kippur.
Il secondo Tempio, si dice, è stato distrutto da ‘sinat hinam’ – l’odio gratuito. La nostra comunità, invece, rischia di andare in frantumi per il personalismo che scinde la prassi dallo studio, dalla cultura e dal rapporto vivo e riconoscente con un Maestro.

Dario Calimani

(6 ottobre 2020)