Periscopio
A proposito di Allen
L’autobiografia di Woody Allen, A proposito di niente, recentemente pubblicata in Italia per i tipi de La nave di Teseo, rappresenta un documento di straordinario interesse non solo sui nascosti “interna corporis” dei mondi del cinema, del teatro, del giornalismo e della musica statunitensi (dei quali l’autore svela, con impietosa crudezza, i torbidi retroscena, intrighi, intrallazzi, lotte di potere, falsità e nefandezze varie), ma anche sui tortuosi e controversi percorsi di affermazione e di escalation sociale degli immigrati ebrei della East Coast, a cui la famiglia di Allen (al secolo, Allan Königsberg) apparteneva.
Lo sguardo dell’autore è crudo e spietato, e dalla sua terribile demolizione non si salva quasi nessuno (tranne la sua attuale, adorata moglie, Soon Yi, il figlio Moyses, le sue due ultime figlie e qualche raro amico). Non si tratta, però, di un testo arido, tutt’altro. Allen mostra un grande amore per la vita (a cui fa da contrappunto la costante ripugnanza per l’idea della morte, verso cui il regista mostra di nutrire, da sempre, un costante orrore), anche se i vari personaggi che la popolano appaiono, nella sua grottesca rappresentazione, come delle maschere tragicomiche: a partire da lui medesimo (descritto come un raro campione di inettitudini, debolezze, incoerenze e nevrosi varie) e dai suoi genitori (il padre, descritto come un viscido e piccolo truffatore, e la madre, la cui incredibile bruttezza basterebbe a demolire il freudiano mito di Edipo), passando per le varie mogli e fidanzate (costrette a subirne le stramberie, ma a loro volta impegnate a rendergli pan per focaccia), fino ad alcuni dei suoi vari figli (quasi tutti adottivi, tranne uno, Ronan, che però non sarebbe suo, ma di Frank Sinatra, e che è, insieme alla madre, Mia Farrow, il suo principale nemico e odiatore); senza risparmiare, ovviamente, nel loro complesso, gli ambienti ebraici in cui è cresciuto (nei quali i devoti fedeli, impegnati a dondolarsi nelle preghiere al Signore, riceverebbero da lui, in cambio, “diabete e riflusso gastrico”). Insomma, un quadro davvero idilliaco. Ma è proprio da questa dura consapevolezza della drammaticità dell’esistenza che deriva quella impellente urgenza di narrazione che, unita al suo straordinario talento, ne ha fatto, com’è noto, un caso unico nella storia del cinema: nessun regista, e neanche nessuno scrittore, può vantare una continuità e prolificità creativa, quasi sempre ad altissimo livello, pari alla sua (forse un’analogia si può trovare solo in Philip Roth, ammiratissimo da Allen, e dal quale questi ha evidentemente attinto molti spunti di ispirazione).
Certo, si tratta del racconto di un artista, e le parole vanno lette come una interpretazione artistica della realtà, non come una rappresentazione fedele e veritiera. Sovviene, al riguardo, una celebre annotazione di Elias Canetti: la vita di ogni uomo, vista da vicino, è comica. Vista ancora più da vicino, è tragica. Come ci appare, dal libro, la vita di Allen? Probabilmente, pur trattandosi di un indubbio genio, non tanto diversa da come potrebbe apparire, a noi stessi, anche la nostra stessa vita.
Buona parte del libro è dedicata al racconto della lunga e violenta guerra familiare, mediatica e giudiziaria che, da ormai decenni, contrappone il regista alla sua ex compagna Mia Farrow, che, com’è noto, lo ha accusato di molestie sessuali verso due dei loro figli, quando avevano cinque e sei anni. Il regista, ovviamente, offre il suo punto di vista, respingendo ogni addebito e accusando a sua volta la Farrow di avere realizzato uno scientifico lavaggio del cervello sui minori. Al di là di ogni valutazione sul caso, è un dato di fatto che nessun tribunale ha mai condannato Allen, che diverse perizie mediche hanno dimostrato la sua innocenza, e che, nonostante tale infamante accusa, gli è stato concesso di prendere in adozione, con Soon Yi, due nuove figlie. Niente in comune, quindi, col caso Polansky, che è, invece, reo confesso. Se la presunzione di innocenza ha un minimo di valore, come si può ammettere che di questo libro sia stata interdetta la pubblicazione negli Stati Uniti, e che sia stata impedita la distribuzione dell’ultimo film del regista? Che civiltà giuridica è questa?
Se Allen fosse colpevole, dovrebbe pagare (così come dovrebbe certamente pagare Polansky, che lo è, invece, dichiaratamente). Ma, fino a prova contraria, non lo è, e il puritanesimo americano si rivela, in questo caso, davvero squallido, rievocando gli aspetti peggiori del Maccartismo e della caccia alle streghe. Quel che è fuori dubbio è che resta un creatore impareggiabile, quantunque scomodo. Film come “Un’altra donna”, “Match point”, “Ombre e nebbia”, “Crimini e misfatti”, “La ruota delle meraviglie” e tanti altri restano delle pietre miliari, che ci aiutano a scandagliare tra le pieghe più riposte dei labirinti e delle oscurità dell’animo umano, a interrogarci sugli ambigui confini tra il bene e il male, sulle misteriose relazioni tra caso e destino, libero arbitrio e stato di necessità.
Si può dire, la sua, un’arte ebraica? È una domanda a cui appare impossibile, e inopportuno, dare risposta, dal momento che, come abbiamo avuto modo di notare, su queste stesse colonne, tempo fa, rimanda direttamente all’altra, ardua domanda se possa mai parlarsi di un'”arte ebraica”, e cosa, con tale espressione, si possa intendere.
Francesco Lucrezi, storico