Salute, cultura e spesa pubblica

Recentemente ho sostenuto la tesi – a mio giudizio ovvia – secondo cui la cultura produce benessere. Ho portato ad esempio la lezione che abbiamo imparato nelle lunghe settimane di lockdown, durante le quali è apparsa evidente la “fame” di cultura che animava gli umani forzatamente costretti nelle case. Dai balconi si sentivano le arie del melodramma, suonate e cantate a pieni polmoni. Nei lunghi collegamenti sul web si anelava alla riapertura dei cinema e dei teatri. Quando si esauriva la scorta di video guardabili si leggevano libri che attendevano da tempo di essere aperti o riscoperti. Altri libri venivano ordinati sul web, in attesa di poter finalmente ritornare in libreria. La richiesta fortissima di cultura è un dato caratteristico dei momenti di crisi. I teatri – lo dicono le statistiche – si riempiono durante le guerre. E se la guerra è dichiarata da un virus ancora ben lontano dall’essere debellato, non sembra venir meno la voglia di accedere liberamente ai cinema, ai musei, ai parchi archeologici, agli archivi e alle biblioteche.
Perché questa fame di cultura? E cosa si può fare per soddisfarla?
Chi si occupa di organizzazione della cultura deve porsi questi interrogativi e tentare di offrire soluzioni adeguate. Uno degli strumenti che oggi abbiamo a disposizione è la cosiddetta Convenzione di Faro, un documento che era stato sottoscritto dall’Italia nel 2013 e che solo a fine settembre di quest’anno è stato finalmente ratificato dal parlamento. Il testo impegna i paesi aderenti a includere la cultura nei suoi vari aspetti fra i “diritti” dei cittadini, riconoscendo in essa uno strumento indispensabile per “lo sviluppo umano e la qualità della vita”. In pratica, da ora in avanti chi ci governa dovrà tener conto anche sul piano legislativo del fatto che la cultura nelle sue diverse espressioni non è un elemento accessorio del quale ci si occupa solo dopo aver riempito a dovere le caselle di bilancio della spesa pubblica. No. Da ora in poi dovrà essere chiaro che se parliamo di cultura ci occupiamo anche e prima di tutto del benessere dei cittadini. La soddisfazione dei bisogni culturali diventa a tutti gli effetti uno strumento di prevenzione sanitaria.
Ho sostenuto altrove che “il finanziamento di imprese culturali che siano in grado di generare benessere deve rientrare a tutti gli effetti nei protocolli di medicina preventiva. Andare a teatro fa bene alla salute, produrre uno studio sull’hate speech contribuisce a individuare sacche di tensione nella società e fornisce gli strumenti per contrastare il conseguente disagio. Realizzare una mostra di documenti sul nostro recente passato contribuisce a disvelare al visitatore la conoscenza diretta sulla storia da cui egli stesso proviene. Lo stesso vale per una esposizione di strumenti di mestieri scomparsi, di fotografie, di ex-voto e così via discorrendo.
Si tratta di un’evidenza semplice, su cui fondare una politica consapevole. La salute pubblica è fatta anche e soprattutto di prevenzione, e la cultura è a tutti gli effetti parte di questa dinamica”.

Gadi Luzzatto Voghera, Direttore Fondazione CDEC

(9 ottobre 2020)