Il Covid e il nostro ebraismo

Il Talmud (Sukkah 27b) riporta un’interessante controversia a proposito della festa di Sukkot appena trascorsa. È lecito durante la ricorrenza trasferirsi da una Sukkah all’altra? In altri termini, sono autorizzato ad accogliere l’invito di un parente o di un amico e recarmi a pranzo nella sua Sukkah, sebbene così facendo trascuri la mia? R. Eli’ezer proibisce, mentre la maggioranza dei Maestri lo permette. Secondo una lettura la discussione verte su due interpretazioni contrapposte dello stesso versetto: “Farai la festa di Sukkot per sette giorni” (Devarim 16,13). R. Eli’ezer legge il versetto in relazione alla Sukkah e ne deduce che la stessa Sukkah deve essere adoperata per l’intera settimana, mentre i Chakhamim lo intendono diversamente (cfr. ‘Arokh ha-Shulchan O.Ch. 637,1). È possibile che la discussione non sia solo esegetica, ma anche concettuale: per R. Eli’ezer conterebbe nella Sukkah il valore della continuità (prospettiva diacronica), mentre per i Maestri sarebbe invece più importante il fattore della condivisione (prospettiva sincronica). In ogni caso la Halakhah è stabilita secondo l’opinione della maggioranza: abbiamo cioè il permesso di passare da una Sukkah all’altra.
Quest’anno in Israele è stato dichiarato un nuovo lockdown in occasione dei Mo’adim. Il governo ha disposto fra l’altro una multa pesante proprio per chi avesse accolto un invito a pranzo fuori dalla propria Sukkah. Lo scopo era ovviamente limitare al massimo le relazioni sociali per arginare l’epidemia che proprio in Israele ha raggiunto dimensioni allarmanti. Leggendo il fatto di cronaca in una dimensione halakhica emerge un paradosso. Lo Stato invita per così dire a una linea di comportamento conforme all’opinione minoritaria e fortemente restrittiva di R. Eli’ezer anziché quella maggioritaria e conciliante dei Chakhamim! Il paradosso è ancora più evidente se si considera che una delle ragioni per cui l’opinione del primo non è in genere accolta come normativa (a parte alcuni casi: cfr. Niddah 7) è che R. Eli’ezer era stato discepolo della scuola di Shammay (Shammutì)! Viviamo in un mondo letteralmente stravolto, altro che travolto, dalla pandemia. Anzitutto basti pensare ai capovolgimenti linguistici: oggi chi è negativo è positivo e viceversa chi è positivo dà un segnale di negatività. Persino la Halakhah viene paradossalmente (torno a dire: la mia è un’osservazione sarcastica e non reale) percepita nei termini di una inversione di tendenza: Shammay sembra quasi prevalere su Hillel!
Finora in Italia siamo stati dei grandi privilegiati. A Torino, per esempio, le Tefillot delle feste si sono sempre svolte con sostanziale regolarità nel rispetto delle disposizioni vigenti, in un clima di serenità e fiducia, senza allontanare nessuno, né ingenerare sospetti. Dobbiamo di ciò essere grati ai nostri dirigenti comunitari che con grande tatto e lungimiranza hanno saputo affrontare una situazione potenzialmente insidiosa su due fronti contrapposti: il rischio sicurezza da un lato, il rischio disaffezione dall’altro. Il peggio è stato evitato anche grazie alla comprensione da parte della base che ha interiorizzato il senso dei provvedimenti adottati adattandosi ai piccoli disagi che la situazione avrebbe potuto comportare. Anche i privati cittadini, gli “iscritti” come li chiama la nostra burocrazia, meritano pertanto gratitudine per il sentimento civico non comune dimostrato.
Non voglio tuttavia limitarmi alle nostre Comunità. Sforzandomi di trarre un bilancio e una prospettiva dalle difficoltà del presente, mi sia consentito uno sguardo più ampio, considerando il panorama dei grandi centri dell’ebraismo a livello mondiale. La pandemia ha messo in luce anche qui delle criticità non da poco, prodromi, sperabilmente, di una visione necessariamente nuova delle cose.
Non sono charedì, ma ho spesso nutrito una certa ammirazione, aldilà di tanti spigoli, per coloro che scelgono di vivere un ebraismo senza compromessi nei limiti del possibile, e come me credo anche altri ebrei più o meno osservanti. Tuttavia oggi proprio quel modello deve affrontare una crisi profonda, forse irreversibile. I charedim che nelle vie di Benè Beraq e di Brooklyn calpestano e bruciano le proprie mascherine, manifestando contro un ordine statale cui attribuiscono la responsabilità del pandemonio che tutti stiamo vivendo, protestano in realtà solo contro se stessi. I charedim, infatti, nella tenacia di mantenere vive le strutture associative dell’ebraismo tradizionale, muoiono come gli altri e forse più e prima degli altri. Ma questa volta sarà arduo sostenere nel loro caso la tesi del martirio ‘al qiddush ha-Shem. La minaccia attuale non viene infatti né dal modernismo assimilazionista, né da un regime persecutore che deporta gli inermi verso campi di sterminio. Oggi l’attacco viene non dall’uomo ma, ki-v-yakhol, per così dire, da D. stesso che “colpisce e guarisce” (Hoshea’ 6,1) senza più distinguere, come cantava Ribò, fra Israele, Esaù e Ismaele. E nei confronti di D. non ha senso far leva sui nostri sani e solidi principi. Ci tocca interiorizzare che la Mitzwah di salvaguardare la salute non è certo inferiore ad altre. Il modello charedì manifesta una palese inadeguatezza a gestire una emergenza vitale. Questa è a mio avviso la principale sfida del coronavirus all’ebraismo contemporaneo e forse anche una rivoluzione. La pandemia pone a tutti nuove domande a livello esistenziale. Chissà che il metabolismo del tempo non ci aiuti a trovare nuove risposte anche a questi interrogativi. La società ebraica, parallelamente a quella generale, è in attesa di queste risposte. Che non sia giunta l’occasione per mettersi seriamente al lavoro?

Rav Alberto Moshe Somekh

(13 ottobre 2020)