Maimonide e le norme sullo studio

È in libreria “Norme sullo studio” del grande filosofo, pensatore e medico Mosè Maimonide (1138-1204).
“Dove e quando studiare? Perché rispettare i maestri? Come i maestri devono trattare i propri alunni? È giusto punire chi non si impegna a scuola?”.
Temi di grande attualità, pedagogica ma anche sociale e religiosa, che animano questo trattato. Il terzo ad essere pubblicato nell’ambito del progetto Sefer haMaddà curato da Massimo Giuliani dopo “Ritorno a Dio. Norme sulla teshuvà” e “Norme di vita morale. Hilkhot de‘ot”.
A curare la traduzione di “Norme sullo studio”, pubblicato come i volumi precedenti dall’editore Giuntina, è rav Roberto Colombo.

“Pur sommando l’intero numero dei precetti, questi non raggiungerebbero per importanza lo studio di una sola parola di Torà” (Talmud Yerushalmi, Peà 1,1).

Trattare dell’importanza dello studio e del valore di questo precetto, che secondo i maestri comprende l’intero mondo delle mitzvot unite assieme, è impresa ardua. Secondo il Talmud, Bavà Metzià 33b, un maestro che commette involontariamente una trasgressione è considerato dal Signore come un “peccatore volontario” per non aver approfondito ulteriormente le proprie conoscenze. Diversamente, un ebreo incolto e impossibilitato allo studio che compia una trasgressione anche volontaria è, agli occhi di Dio, come un ebreo che ha commesso, sì, una colpa, ma solo casualmente. In pratica, la gravità della mancanza non è sempre nella colpa stessa ma anche nell’ignoranza che ha permesso allo sbaglio di scaturire.
A questo punto potrebbe sorgere un’ovvia domanda: se un colto che sbaglia è più colpevole di fronte a Dio di un uomo impreparato che commette lo stesso errore, non converrebbe dunque essere privi di approfondita cultura? I maestri paragonano un saggio a un diamante prezioso. Una pietra più è pregiata e più la minima scalfittura diminuisce il suo valore. L’incolto, al contrario, è come un vaso di ferro grezzo che non perde il suo poco valore a causa di una imperfezione. Conviene dunque essere un misero contenitore di metallo o un diamante scheggiato? Non c’è dubbio al riguardo. Il saggio, il diamante a cui prestare grande attenzione, è indubbiamente lo scopo di ogni ebreo.

Un forte legame con la Torà

Il grande maestro Yisrael Meir Kagan, noto come Chafetz Chaiim (1839-1933), calcolò che in un solo minuto di studio di Torà un ebreo adempie a circa duecento mitzvot affermative. Ogni lettera pronunciata è infatti una singola mitzvà. Trovare un buon lulav, indossare un prezioso tallit e così via è importante. Ma le suddette mitzvot portate ad esempio sono, in definitiva, singoli precetti. Solo lo studio della Torà intrapreso per imparare a come servire il Signore può includere centinaia di precetti contemporaneamente.

Rashi, il più noto commentatore della Torà, nel suo commento a Levitico 26,3 spiega che tutte le benedizioni saranno date da Dio solo se saremo amelim ba-torà e che, al contrario, tutte le maledizioni che colpiranno il nostro popolo saranno il frutto della nostra incapacità ad essere amelim. Il termine ebraico amelim qui riportato potrebbe essere tradotto con “stanchezza” o “sofferenza” ma non con “studio”. Rashi ci insegna che non è la gioia superficiale con cui si affronta un testo o un detto rabbinico a portare benedizione. Togliere tempo al sonno, al cibo, al divertimento e al lavoro per studiare con serietà e abnegazione, questo significa essere amelim ba-torà. È l’impegno e lo sforzo, a volte la privazione, che generano un forte legame con la Torà, un legame che si tramuta poi in vera gioia, quella gioia che rende lo studioso legato in modo indissolubile con la propria tradizione. Studiare Torà è dunque certamente difficile, ma fondamentale per il proprio futuro.

Il Maimonide, come del resto tutti gli altri dotti che hanno segnato la storia ebraica, pone grande accento sullo studio e ritiene tale mitzvà fondamentale per la creazione di una vera identità ebraica. Ma come tutti i precetti imposti dalla Torà, anche lo studio di un testo presuppone una serie di norme senza le quali non si potrebbe adempiere al comando in modo dovuto. Il modo di ascoltare, di parlare, addirittura la posizione del corpo, il rispetto dell’alunno verso il maestro e del maestro nei confronti dello scolaro, il comportamento morale… sono solo una parte dei temi affrontati dal Maimonide nei paragrafi del suo immenso Mishnè Torà, e in particolare del trattato del Sefer ha-madda‘ noto come Hilkhot talmud Torà, che trattano del precetto dell’istruzione e della cultura. Il Maimonide non ci illumina nel suo trattato solo sugli aspetti positivi dello studio ma anche sugli aspetti negativi. Una persona poco morale o di comportamenti ineducati è bene che non si addentri negli studi poiché lo studio sviluppa sempre il carattere, sia questo positivo o negativo, di un essere umano. Così pure una donna, secondo il Maimonide, non ha l’obbligo dello studio come l’uomo, in quanto – spiega il filosofo e halakhista medievale – la mente della donna è spesso portata agli aspetti pratici della vita e meno a quelli culturali. Ora, su quest’ultimo argomento vorrei soffermarmi brevemente. Il Rambam scriveva tali cose molti secoli fa. I tempi son cambiati e un vero studioso di Torà cerca di comprendere anche la mutazione storica e sociale della collettività.

La donna e gli studi di Torà

Nel Talmud, Chaghigà 3b, si ricorda che Moshè ricevette l’ordine di riunire l’intero popolo ebraico per ascoltare gli ordini divini (Deuteronomio 31,12). Da ciò si ricava che anche le donne, afferma Rabbi Eleazar ben Azarià, sono tenute ad ascoltare gli insegnamenti della Torà. Secondo il rabbino Yoel Sirkìs (1561-1640), il Rambam seguirebbe questa opinione e non vieta alle donne di sentire insegnamenti di Torà sebbene non ne consenta uno studio vero e proprio (BaCh in Yorè Deà 246). Ma il permesso, spiega Sirkìs, riguarda solo gli insegnamenti della Torà scritta mentre rimane il divieto per una donna di affrontare l’impegno dello studio della Mishnà e soprattutto del Talmud, che deve rimanere una prerogativa maschile, non potendo la ragazza, come s’è detto, affrontare con la giusta serietà le complesse disquisizioni rabbiniche presenti nelle citate opere.
Nel Sefer Chassìdim di Yehuda ben Shemuel di Ratisbona (di famiglia italiana, visse in Germania tra XII e XIII secolo), dove si elencano le usanze degli ebrei tedeschi, si afferma l’obbligo, e non solo il permesso, di insegnare alle donne in modo completo e approfondito tutte le norme che anch’esse sono tenute a compiere. Nello Shulkhan Arukh Rabbi Moshè Isserlis di Cracovia (1529-1572) propende per questa opinione (Yorè Deà 246,6). Yaakov ben Asher (1270-1340) ritiene inoltre che una donna che lo desideri abbia il permesso di studiare per conto proprio tutti i passi di Torà che ritiene formativi per la propria vita ebraica (Yorè Deà 246,15).
In epoca moderna, anche il rabbino Dov Halevì Soloveitchik (1820-1892), nella sua opera Shut Bet Halevì, segue una simile opinione. Il rabbino tedesco Samson Raphael Hirsch (1808-1888), nel suo commento al Siddur, ritiene che le donne siano obbligate a studiare non solo le norme di comportamento ma ogni passo di Torà scritta o orale che possa incidere in modo positivo sul loro modo di comportarsi e sulla loro morale; e così scrisse anche Rabbi Moshè Feinstein (1895-1986) nella sua opera di normativa Shut Igherot Moshè (Yorè Deà 3,87).
In Italia il rabbino Samuele Archivolti (1515-1611), capo della yeshivà e del tribunale rabbinico di Padova, si occupò della questione dello studio femminile della Torà. Archivolti ritiene che il divieto da alcuni espresso nei confronti dello studio delle donne riguardi in realtà solo le giovani ragazze che ancora non hanno dato prova di maturità, mentre le “signore” ormai adulte, che dimostrano attitudine allo studio, con serietà e impegno, possono, anzi devono dedicare il proprio tempo alla personale preparazione culturale, altrimenti saranno poi portate alla trasgressione e a spendere inutilmente la propria vita. Della stessa opinione è anche il maestro sefardita Rabbi Chaiim Yosef David Azulay (1724-1806).
Il già citato Chafetz Chaiim scrisse che, al giorno d’oggi, le norme riguardanti l’educazione delle ragazze non sono più quelle di un tempo: una volta il genere femminile si basava principalmente sull’esempio dei genitori ma oggi, spesso, questo non è più possibile. L’assimilazione costante impone alla donna di studiare e a un padre o a un maestro di insegnare Torà alle ragazze e alle donne come ai ragazzi e agli uomini. Nell’antichità, inoltre, le donne non si occupavano di cultura secolare; pertanto, nei tempi moderni, se non si affiancasse lo studio della Torà allo studio scolastico e universitario, molte ragazze potrebbero allontanarsi dalla fede e dall’osservanza.
Rabbi Chaiim David Hallevi (1924-1998) e Rabbi Aharon Lichtenstein (1933-2015), tra i grandi maestri dei nostri giorni, ritengono che soprattutto oggi, in una società dove ormai le donne occupano posti di prestigio in tutti i campi, sia assolutamente necessario che ad esse, a qualsiasi età, sia trasmessa la conoscenza della Torà in tutte le sue forme, sia scritta sia orale, e che anche la sapienza talmudica debba essere parte integrante dell’insegnamento nelle scuole ebraiche frequentate da ragazze.
Uomini e donne, bambini e bambine… ogni ebreo e ogni ebrea, a seconda delle proprie attitudini e delle proprie possibilità, deve studiare la Torà, addentrarsi nei meandri delle Sacre Scritture e dei commenti dei maestri ed infine tradurre in vita gli insegnamenti appresi. Solo questo potrà dare un indelebile futuro al popolo d’Israele e alla sua cultura.

Rav Roberto Colombo

(20 ottobre 2020)