Una voce dimenticata

Bisogna essere onesti fino in fondo. Questa fastidiosa e indesiderata pandemia ha fatto moltissimi danni, gravi e di ogni sorta. E tuttavia ha anche portato qualche raro beneficio. In più di qualche caso ha ricollegato rapporti familiari prima sfilacciati, ha ridimensionato valori già ritenuti fondamentali, ha riportato in auge la lettura e i mezzi informatici, con relativi pro e contro.
Ci ha anche fatto concentrare un po’ meno su noi stessi e ci ha fatto scoprire la precarietà dell’esistere. Ha ridimensionato molti dei nostri valori. E se ha moltiplicato a dismisura il chiacchiericcio mediatico su un unico argomento, il virus, ci ha fatto rivalutare il valore del silenzio.
Una splendida Sol Gabetta con il suo violoncello fa cantare Schumann, alla Fenice, di fronte a un pubblico rarefatto e assorto. Tanto assorto da renderlo invisibile. Nessuna ignara interruzione di applausi impropri fra un tempo e l’altro e, miracolo dei miracoli, nessun artificioso colpo di tosse durante le pause fra i tempi delle sonate. Solo silenzio assoluto, un silenzio inusuale per l’intero concerto, un silenzio pauroso. Silenzio preoccupante, come una sospensione che non intende risolversi.
Ti coglie il sospetto che il virus abbia disfatto il narcisismo e la vana spocchia delle persone, la smorfiosa volontà di dichiarare agli altri la propria presenza. I cori dei colpi di tosse, sforzati, superflui, disturbanti, solo per uscire dall’anonimato, per dire ‘esisto’, ‘guardatemi, ci sono anch’io’, ‘ammirate come sono bello nel mio raffinato intelletto mentre ascolto Schumann’, quei cori si sono d’un tratto zittiti, come di fronte a un’improvvisa esplosione: la stupefazione, disperata e spaurita.
La finezza e l’eleganza del violoncello di Sol Gabetta si offre a un pubblico schiacciato nel silenzio. Si avvera il miracolo dello sguardo che si rivolge all’interno anziché alla folla (si fa per dire) circostante. Come se ci si fosse ricordati, all’improvviso, e con sorpresa lancinante, che ci si può anche porre in ascolto di una voce che abbiamo dentro. Una voce di cui ci eravamo dimenticati.

Dario Calimani

(20 ottobre 2020)