Periscopio – Victor Klapholz (1925-2020)

Ho avuto occasione, lo scorso mercoledì 30 settembre, di menzionare, in occasione della scomparsa di Peppino Caldarola, Yosh Amishav, già diplomatico israeliano di alto profilo, e poi, per decenni, alto funzionario del Keren ha-Yesod, che di Caldarola è stato intimo amico. E voglio oggi ricordare che lo scorso 10 settembre è mancato, all’età di novantacinque anni, il padre di Yosh, Victor Klapholz (nato coi nomi ebraici Yeshayahu David), la cui vita merita di essere ricordata.
Nato nel 1925 a Cracovia, in Polonia, fu travolto, nel 1939, dalla guerra e poi dalla Shoah, che lo costrinse a trascorrere più di quattro anni nell’inferno del ghetto di Cracovia e poi dei campi di Plaszow, Czestochowa, Buchenwald, Dora e Bergen-Belsen. Il 28 ottobre del 1942, il giorno della seconda “azione” tedesca nel ghetto di Cracovia, i suoi genitori, il fratellino, i nonni e molti altri membri della sua famiglia furono radunati e deportati la stessa sera verso il campo di sterminio di Belzec, dove furono assassinati. Riuscì miracolosamente a sopravvivere fino al 15 aprile 1945 (giorno che usava definire “il suo secondo compleanno”), quando fu liberato dagli inglesi, e riparò in Belgio, dove entrò clandestinamente in treno, nel 1946, trovando rifugio presso uno zio. Pur con la morte nel cuore, non volle cedere alla disperazione, imparò rapidamente il francese e il fiammingo, oltre a diverse altre lingue, si impegnò nel lavoro, creò una famiglia e mise al mondo dei figli, da cui sarebbero discesi nipoti e cinque pronipoti.
Di carattere aperto e comunicativo (non l’ho mai incontrato di persona, ma ricordo benissimo l’unica volta che parlai con lui per telefono, quando, come se fossimo dei vecchi amici, si divertì a dirmi delle battute scherzose), portò sempre con sé – come tutti i sopravvissuti – l’orrendo ricordo del suo passato, sforzandosi di trovare delle risposte a qualcosa che restò per lui sempre impenetrabile dalla ragione umana. Rilasciò numerose testimonianze ufficiali, presso lo Yad Vashem, il Progetto Spielberg e in altri contesti, ma evitando sempre di partecipare alle cerimonie ufficiali, che gli apparivano fredde, convenzionali e impersonali. Dichiarò di avere perso, nella Shoah, insieme alla sua famiglia, anche la fede nella quale era cresciuto, e si riconosceva pienamente nella cruda frase di Primo Levi: “C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio”, che citava spesso.
Si trasferì in Israele, con la moglie, dopo la Guerra di Kippur, alla fine del 1973. Il figlio Yosh preferisce usare l’espressione “si trasferì”, anziché la più nobile “fece aliyah”, in quanto Victor non si considerava propriamente sionista, nel senso ideologico della parola. Col passare del tempo sviluppò un atteggiamento complesso nei confronti di Israele: da un lato era orgoglioso delle realizzazioni del Paese (diceva spesso “Chi avrebbe mai creduto che gli ebrei sarebbero stati capaci di costruire qualcosa come questo?”), ma, d’altra parte, si dichiarava molto deluso per quelle che gli parevano delle derive messianiche e antidemocratiche del Paese, per la crescente influenza della religione sulla politica e anche per quello che percepiva come un atteggiamento poco accogliente dello stato nei confronti degli immigrati (africani, filippini e altri…): “a me – soleva dire, facendo il paragone – il Belgio ha dato una chance e, anche se ho dovuto aspettare tanto per ottenere la cittadinanza belga, sono sempre stato trattato con rispetto”.
La Shoah non lo ha mai lasciato, ma non gli ha impedito di condurre una vita piena, felice, ricca di affetti e di soddisfazioni. La sua storia è una grande lezione di vita, di resistenza, di coraggio, un esempio mirabile della straordinaria forza d’animo dei sopravvissuti, verso i quali le generazioni presenti e future – non solo di ebrei – hanno tanto da imparare, e avranno per sempre un impagabile debito di gratitudine.
Il suo ricordo deve anche indurre a rivolgere un ringraziamento alle due patrie che lo hanno accolto, il Belgio e Israele, alle quali è stato tanto legato. E credo che difficilmente chi non abbia sofferto per essere stato crudelmente abbandonato da quello che credeva il proprio Paese possa davvero capire cosa voglia dire avere una patria.
Della sua adesione alla triste equazione di Primo Levi, non c’è che da prendere atto, e, quanto alle sue critiche nei confronti di alcune scelte e posizioni dello stato degli ebrei, esse vanno ascoltate con doveroso rispetto, e devono fungere da stimolo per impegnarsi ad amare quel Paese in modo sempre vigile, critico e costruttivo. Ricordando sempre che, con la legge istitutiva dello Yad Vashem, Israele ha esteso una “cittadinanza della memoria” (non simbolica, ma giuridica, effettiva) anche a tutte le vittime della Shoah, quali custodi e testimoni non solo della sua esistenza, forza e prosperità, ma anche dei suoi valori e della sua moralità.

Francesco Lucrezi, storico