Emergere

Già non siamo più ciò che pensavamo di essere ancora all’inizio di quest’anno. Tuttavia, ancora non siamo divenuti ciò che il futuro prossimo ci imporrà di essere. Soprattutto, nulla cogliamo di quanto potrebbe configurarci, nonché imporci, il tempo a venire, anche a breve. Nessun “filosofeggiare”, beninteso, ma la consapevolezza che la pandemia – acceleratore e fattore di radicalizzazione di processi in atto non da oggi eppure, per buona parte, fino a non molto tempo fa, ancora sottopelle e sottotraccia – ci sta dissodando. Disancorandoci dalle nostre residue certezze. Se ne accorgono di meno, al momento, quelle categorie che per virtù e per circostanza, per calcolo e condizione, sono maggiormente protette, a partire dalla regolarità del reddito. Mentre lanciano crescenti grida di sofferenza (e quindi, per più aspetti, di legittima insofferenza) quanti, invece, si trovano nella scomoda condizione di misurare da subito, sulla propria pelle, le «dure repliche della storia» che, in questo caso, sono lo stigma del mutamento. Quest’ultimo ci tradisce quando si velocizza al punto tale da fare sì che ognuno di noi, a partire dalla sua quotidianità, sia costretto ad inseguirlo, mettendosi prima faticosamente – poi angosciosamente – alla rincorsa delle trasformazioni che sono in corso. Qualsiasi riflessione che non voglia tradursi nella retorica del “tradimento” (di chi? Di cosa?) deve allora partire dalla consapevolezza che le società, del passato come nel presente, non si basano su un astratto principio di “giustizia” e, ancora meno, di eguaglianza. Quelle aggregazioni umane che conosciamo come civiltà (un termine così ampio da essere a sua volta profondamente mutevole, a seconda delle interpretazioni dettate dalle circostanze) sono nate, cresciute e poi anche infine declinate intorno al grado sussistente di coesione sociale. La quale è tanto più pronunciata – e quindi efficace – quando sa includere e non espellere. Il mondo che, passo dopo passo, si va configurando, presenta molti tratti di crescente intolleranza. Che non è una disposizione dello spirito umano in quanto tale ma degli ordinamenti materiali che gli esseri umani creano e disfano di volta in volta. L’ebraismo diasporico è sopravvissuto nel tempo poiché ha saputo, a modo suo, avvedersene. Spesso con grande fatica poiché l’agire umano si accompagna comunque alla faticosità del vivere e alla coscienza che di esso si matura. Nessuna chiusura in un nocciolo identitario fine a se stesso. Piuttosto, la consapevolezza che, dinanzi allo spirito dei tempi, occorra dotarsi di spirito oltre il tempo medesimo, per non essere travolti dalla violenza implacabile della storia. Lo spirito, infatti, è la coscienza di se stessi, della propria ragione di esistere, della necessità di continuare qualcosa per il tramite non solo di se medesimi ma di quanti ci stanno intorno e ci seguiranno. Non si tratta di belle parole, scritte nel vuoto del momento, sulla sabbia della battigia, nel mentre l’onda cancella ben presto tutto, bensì della necessità di capire cosa implichi il confrontarsi con situazioni che stravolgono l’ordine abituale dell’esistenza di ogni giorno. Non siamo i primi a fare una tale esperienza, non saremo gli ultimi. Ma ora, una qualche emergenza (l’etimo indica il rendersi visibile da parte di un qualcosa già esistente e tuttavia, fino ad un certo punto della sua esistenza, sommerso o comunque celato, quindi letteralmente «mergente») impone a noi stessi, alla nostra generazione, di adeguare il nostro pensiero ad un orizzonte imprevisto. Non è per nulla detto che da ciò derivino solo fatiche. Pensiero e corpo producono spesso il meglio quando debbono confrontarsi non con l’acquiescenza bensì con la sfida dell’inedito.

Claudio Vercelli