Il ghetto interiore, e non

Lo scrittore e regista argentino Santiago Amigorena, ha vinto il Premio Goncourt all’estero, assegnato da giurie di studenti (per l’Italia ed il Belgio) per Il ghetto interiore (Neri Pozza editore, 2020, tradotto da Margherita Botto). La trama riguarda il nonno, Vicente Rosenberg, emigrato in Argentina, lasciando la madre ed il resto della famiglia in Polonia negli anni del nazismo, ed il suo rimorso di fronte alla crescente certezza del loro destino infausto, il quale sviluppa in parallelo un crescente degrado e un altrettanto crescente mutismo. Il volume fa parte di un progetto letterario di lunga gittata, tendente a proporsi verso Marcel Proust come Joyce si propose ad Omero, con una pretesa forse eccessiva. Il romanzo, ameno e scritto con grande professionalità, mi riporta, con grande efficacia, nella Buenos Aires degli anni quaranta, che potrebbe non essere stata molto diversa da quella degli anni sessanta che, anche per ragioni anagrafiche, ben conosco.
L’autore, nelle sue interviste, appresso menzionate, sembrerebbe far ricorso, giustamente, alla teoria di Amartya Sen della molteplicità delle identità (“The same person can be, without any contradiction, a South African citizen, of Asian origin, with Indian ancestry, a Christian, a socialist, a woman, a vegetarian, a jazz musician, a doctor, a feminist, a heterosexual, a believer in gay and lesbian rights, a jazz enthusiast…”; da ultimo in Peace and Democratic Society, Cambridge, 2011, p.12).
Amigorena, che ha cambiato lingua e scrive nell’idioma della sua seconda patria, la Francia, dichiara a Stefano Montefiori (La Lettura, Corriere della Sera,27 settembre 2020, p.33) “Io di solito non mi sento particolarmente ebreo, anche se lo sono, mia madre è ebrea. Non sento un particolare attaccamento a Israele. Ma di fronte a un atto di antisemitismo sono ebreo. E mi sento anche arabo quando sento qualcuno trattato da “sporco arabo” per la strada».
Ilya Ehrenburg, leggermente più famoso, diede un’analoga risposta: “sono uno scrittore russo ma, finché vi sarà un singolo antisemita sulla terra, quando mi si chiederà la nazionalità, risponderò; ‘ebreo’ “.
Stante il carattere eterno sia degli atti di antisemitismo che dell’esistenza di antisemiti, il loro ebraismo, in tesi, non sarebbe mai venuto meno. Ma queste sono sottigliezze da causidico, perché il loro comune messaggio trasmette la nozione di ebraismo negativo: sono ebreo per reazione e non perché la cosa mi coinvolga.
Amigorena, in un’intervista concessa a Débora Campos per Clarín del 19 settembre 2019, dichiara “Pero el problema que plantea el libro es mas bien: ¿qué es la identidad? ¿Puede ser una sola cosa?¿Podemos definirnos con una sola palabra? (….) y también que soy francés (en parte porque odio vivir en París) y judío (porqué no me gusta mucho Israel)”. La famiglia è andata via dall’Argentina quando lui era piccolo perché vi era una dittatura, e si poi è spostata in Uruguay, da dove, all’avvento della dittatura uruguagia, si è ulteriormente spostata in Francia quando lui aveva dodici anni. Però Amigorena non dice che “no me gusta mucho” l’Argentina oppure l’Uruguay; semmai non ama la dittatura argentina e quella uruguagia. Quando dichiara che non gli piace molto Israele anziché, per esempio, il suo governo, il riferimento può essere soltanto ad Israele come progetto di vita per il popolo ebraico, riferito quindi alla sua stessa esistenza. Intendeva dire altro? Fra le possibili ipotesi, dobbiamo scartare quella che porterebbe a sostenere che un romanziere così famoso non si esprima con proprietà. Plus dixit quam voluit?
Come accennato, per quest’opera, Amigorena ha vinto il Goncourt, ma non il Goncourt/tout court, bensì il Goncourt all’estero, riguardante nel suo caso il Belgio e l’Italia. Insomma, è molto bravo e talentuoso, anche se non è André Malraux, il vincitore del Goncourt/tout court del 1933 con La condition humaine; per chiarezza; diciamo che non è nemmeno Ehrenburg. Sarà pure ebreo per reazione, ma sta di fatto che ricorre all’ebraismo sia perché è parte della sua vita, sia per l’interesse fuori dall’ordinario che rivestono le vicende degli ebrei. Stride parecchio, però, notare che minimizza il suo ebraismo mentre ne massimizza la resa artistica; in questo non sarà mai solo.

Emanuele Calò, giurista