La svolta del mondo arabo

Dunque, dopo gli Emirati Arabi e il Bahrein, ora dovrebbe essere la volta del Sudan (il Paese dalla cui capitale, Khartoum, furono pronunciati, subito dopo la guerra dei Sei giorni, i famigerati “tre no” della Lega Araba: No ai negoziati, No al riconoscimento di Israele, No alla pace). E già si fanno i nomi di Marocco, Oman e, nientepopodimeno, Arabia Saudita. Il “fronte del rifiuto” pare sciogliersi come neve al sole, e una parte sempre crescente del mondo arabo e islamico pare finalmente aver deciso di diventare adulto, abbandonando la comoda e tranquillizzante “coperta di Linus” della contrapposizione apodittica e pregiudiziale all’odiata “entità sionista”.
Devo confessare, con dovuta umiltà, che non mi sarei mai aspettato una svolta del genere, e in tempi così accelerati. Chi, come me, era abituato, da lunghi anni, a parlare indistintamente di un monolitico “mondo arabo”, che avrebbe trovato nell’antisionismo un radicato e irrinunciabile fattore identitario, deve ammettere di essersi sbagliato. Nel mio caso, sono felicissimo che la realtà abbia contraddetto le mie pessimistiche analisi e previsioni, e spero di tutto cuore che le smentite abbiano a ripetersi e a moltiplicarsi ancora in un prossimo futuro.
Per certi versi, anche se la risonanza mediatica è inferiore, il fenomeno a cui stiamo assistendo somiglia alla dissoluzione del blocco dei Paesi del Patto di Varsavia, nel 1989 (l’anno che Francis Fukuyama elesse a “fine della storia”). Le analogie sono molte: in entrambi i casi c’erano una molteplicità di Paesi sottoposti a una sorta di cappa di piombo, più o meno imposta dalla forza, o dall’abitudine, che costringeva tutti a comportarsi, almeno su certi fronti, nello stesso modo, e a dire e fare le stesse cose; in entrambi i casi le pecore di questi greggi non sembravano avere nessun margine di autonomia, e neanche di pensiero: non era loro concesso di giudicare se quello che dicevano e facevano era giusto o sbagliato, le cose andavano così e basta; nessuno dei due greggi ricavava alcun beneficio da quest’appartenenza, ma nessuna pecorella pensava di potere uscire dal recinto, probabilmente la cosa era ritenuta impossibile; in entrambi i casi, un bel giorno, qualcuno si è accorto che la porta della palizzata non era chiusa, e che la si poteva tranquillamente attraversare, senza nessun pericolo; e, una dopo l’altra, prima con incedere timoroso, poi con passo sempre più sicuro, le pecorelle hanno cominciato, una dopo l’altra, ad avventurarsi “en plein air”. La data di inizio della costruzione delle due “prigioni” è abbastanza simile, risalendo, nell’uno e nell’altro caso, all’inizio del secondo dopoguerra, quando sono nati il Patto di Varsavia, lo Stato di Israele e, insieme a esso, il blocco dei suoi ostinati nemici, sempre uniti nell’odiare, condannare, boicottare, dichiarare e fare guerra, senza neanche sapere perché. Anche se, tra i due fenomeni, ci sono pure delle grandi differenze: il comunismo, come regime politico radicato su base continentale, infatti, si è realizzato solo dopo la Prima e, soprattutto, la Seconda Guerra Mondiale; l’antisionismo, invece, non è, chiaramente, che la maligna e subdola prosecuzione di un fenomeno molto più antico, che conta quasi duemila anni di storia.
Ho detto che lo sgretolamento (o, almeno, il suo inizio) del muro dell’antisionismo arabo sta avendo certamente meno risonanza mediatica di quanto non ne abbia avuto, a suo tempo, il crollo del muro di Berlino. Eppure, si tratta di un accadimento dalla straordinaria rilevanza storica, non meno importante della stessa dissoluzione del blocco dei Paesi dell’Est, se è vero che l’antisemitismo è un qualcosa di tanto più risalente e diffuso dello stesso comunismo. Qualcuno potrebbe dire che sto anticipando la data di morte di due realtà che sono ancora vive e vegete: il comunismo, appunto, sotto la cui bandiera vive ancora (almeno apparentemente) circa un miliardo e mezzo di persone, e l’antisionismo (per non dire l’antisemitismo), che è ancora, senza dubbio, vivo e vegeto.
Vero. Ogni volta che, nel libro della storia, si ha l’impressione di iniziare la lettura di un capitolo nuovo, si tratta sempre, in realtà, di un “post-scriptum” del capitolo precedente. Ma qualcosa, indubbiamente, come nel 1989, è accaduto anche nel 2020.
Tre domande, allora, si pongono: cosa è accaduto, o cosa sta accadendo? Perché è accaduto, perché sta accadendo? E, soprattutto: cosa potrà accadere domani, e cosa si può fare affinché accada, ancora, qualcosa di positivo?
Non conosco la risposta (anzi, le tre risposte). E poi, se la conoscessi, come si è visto, sarebbe certamente sbagliata. Ma mi riservo comunque di svolgere, mercoledì prossimo, qualche ulteriore osservazione su queste due distinte date di “fine della storia”.

Francesco Lucrezi

(28 ottobre 2020)