Dietro l’accordo con il Sudan
L’accordo tra Israele e Sudan per il reciproco riconoscimento è stato letto da molti come l’inevitabile sviluppo del percorso avviato con gli accordi con gli Emirati e con il Bahrein, quasi come un corollario di quegli accordi, un ulteriore anello di una catena destinata ad arricchirsi progressivamente.
In realtà le cose stanno in maniera assai diversa, per varie ragioni. La prima riguarda la profonda diversità istituzionale, politica e storica tra le due monarchie del Golfo e il Sudan. I due Stati del Golfo hanno un solido impianto istituzionale, fondato sul potere assoluto delle dinastie che le governano. A noi occidentali questo modello istituzionale può non piacere, anzi può ripugnare, figli come siamo, per nostra fortuna, della Rivoluzione francese e degli sviluppi liberali del XIX e XX secolo; ma è evidente che è proprio questo stabile assetto istituzionale che ha consentito ai due Stati arabi di concludere un accordo con Israele che probabilmente sarebbe andato incontro a grossi rischi se sottomesso alla volontà popolare.
Dal punto di vista politico una delle motivazioni, se non la principale, che ha spinto all’accordo è il timore dell’espansionismo iraniano: entrambi gli Stati si trovano a brevissima distanza dalla Repubblica degli ayatollah ed esposti in prima fila alle sue minacce, in particolare il Bahrein, la cui popolazione è in maggioranza sciita. Dal punto di vista storico non è stato irrilevante il fatto che tra Israele e i due Stati arabi non esistesse uno Stato di guerra. Emirati e Bahrein hanno raggiunto la piena indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1971: non hanno quindi partecipato né alla guerra del 1948 né a quella dei Sei giorni nel 1967; la guerra di Yom Kippur del 1973 ha riguardato soltanto Egitto e Siria e ad essa non ha partecipato la Giordania e tanto meno Emirati e Bahrein.
Per il Sudan le cose stano in maniera ben diversa. Dal momento della sua indipendenza, ottenuta nel 1956, il Sudan è stato sottomesso a una serie di instabili dittature militari, frutto di ripetuti colpi di Stato. Non ha da temere direttamente un intervento iraniano e, storicamente, è stato uno dei più acerrimi nemici di Israele schierato costantemente dalla parte del cosiddetto fronte del rifiuto. E’ stato rilevato più volte, in questi giorni, che il famoso vertice dei Paesi arabi del 1° settembre 1967 che, dopo la guerra dei Sei giorni, si pronunciò per il triplice no (no alla pace con Israele, non al riconoscimento di Israele, no alle trattative con Israele) si svolse proprio a Khartoum. L’instabilità del regime sudanese è stata per anni accentuata dal problema del sud del Paese, abitato da popolazioni cristiane e animiste in contrasto con la maggioranza islamica del nord, che ha portato a un conflitto risolto solo nel 2011 con la secessione delle regioni meridionali e la formazione di un nuovo Stato, Il Sudan del Sud.
A queste profonde diversità con le due monarchie del Golfo si deve aggiungere il fatto che l’accordo di Abramo è giunto, come si è saputo, dopo un lungo periodo di contatti e di accordi non pubblici che sono venuti alla luce solo al momento in cui il quadro internazionale lo ha consentito. L’accordo con il Sudan appare invece il frutto di decisioni maturate in tempi molto più brevi e concluso – e questo è un altro aspetto da sottolineare – sotto l’impulso decisivo del Presidente Trump che ha spinto per accelerarlo per evidenti ragioni elettorali. Anche il patto di Abramo deve molto alla politica americana, ma non c’è dubbio che abbia avuto un peso decisivo anche una chiara volontà politica dei due Stati del Golfo che si era già espressa autonomamente in varie occasioni, una delle più note delle quali fu la cerimonia di premiazione di un atleta israeliano ai campionati del mondo di judo svoltisi ad Abu Dhabi nell’ottobre 2018 e la cui importanza segnalammo in un articolo su Moked del 1° novembre 2018 (“Eppur si muove…”).
Tutte queste considerazioni non hanno in alcun modo lo scopo di sottovalutare l’accordo raggiunto con il Sudan. Vogliono soltanto segnalare la maggiore fragilità di questo accordo rispetto al patto di Abramo e il rischio che l’accordo stesso possa essere messo in discussione da rivolgimenti interni nella politica sudanese, che non si possono escludere, con contraccolpi negativi su tutto il quadro mediorientale. Nello stesso articolo citato (“Eppur si muove…”) segnalavamo anche l’importanza della visita fatta in quei giorni dal primo ministro Benjamin Netanyahu a Mascate, capitale dell’Oman. La visita sembrava preludere alla conclusione di un accordo tra i due Stati che invece finora non c’è stato, forse anche a causa della morte del sultano Qabus bin Aid al-Said avvenuta il 10 gennaio 2020. Certamente un accordo con l’Oman, come anche uno con il Marocco, darebbe maggiori garanzie di stabilità rispetto a quello concluso con il Sudan.
Valentino Baldacci