Gli Usa visti da Borat

Persino Borat ha trovato gli Stati Uniti tanto cambiati in pochi anni, o meglio, come dimostra il primo film del 2006, la “profonda” America aveva già in sé quei presupposti per portare alla vittoria di Donald Trump. Ignoranza, fanatismo, manie complottiste, culto delle armi, misoginia, xenofobia e anche antisemitismo, non sono certo, e Sacha Baron Cohen lo ribadisce bene, i tratti caratteristici dello stato kazaco ma virus diffusi anche tra una parte degli statunitensi. Stupisce che ad indignarsi sia stato in questi anni più lo stato del Centro Asia che i secondi – in realtà Donald Trump ha definito in questi giorni Cohen “un buffone schifoso”. Non ci vuole molto a comprendere che Cohen usa l’espediente narrativo di uno stato misconosciuto ai più per documentare antropologicamente i lati più oscuri, retrogradi e “conservatrici” degli Stati Uniti. Lo fa sì in maniera dissacrante, volgare, e talvolta un po’ caricaturale, ma non si può non riconoscere la genialità nell’adottare questo punto di vista, una sorta di “lettres persanes” in chiave comica e contemporanea. Gli Stati Uniti sono un paese tanto magnifico, complesso, e ricco di varietà, ed è difficile pensare ai rednecks dell’estremo sud e del Midwest e contemporaneamente al colto Nord Est, e poi alla cosmopolita New York City, a tutto ciò che ha prodotto intellettualmente, con il mondo provinciale nel quale si aggira Borat. Le discrepanze e i salti culturali sono sempre più insiti nelle nostre società, e talvolta non è questione di chilometri e di aree, ma sono visibili da un isolato all’altro nella stessa metropoli. Per tornare al film, chi lo ha visto avrà poi riconosciuto nella lingua usata da Borat con la figlia un improbabile ma ben distinguibile ebraico. Lingua che Sacha Baron Cohen, di madre israeliana e già volontario come membro dei Habonim Dror in vari kibbutzim, conosce molto bene.

(30 ottobre 2020)