As Time(s) goes by
Dopo la decapitazione in strada del professore francese che aveva mostrato in classe delle vignette blasfeme su Maometto (che, personalmente, non condivido affatto, ma ciò che non si condivide non può comportare il taglio della testa) il New York Times ha titolato “French Police shoot and kill man after a fatal knife attack”, seguendo uno stile che, in Italia, è riservato alle vicende israeliane dove, nel caso di uccisione di un attentatore, si cita prima la reazione e poi l’azione, dimostrando, ancora una volta, che siamo un laboratorio politico.
Siccome sembra che negli USA, a differenza di qui, se ne accorgano, dopo le proteste, il NYT ha subito corretto in ”Man Beheads Teacher on the Street in France and is killed by Police”. Il sottotitolo, però, non era molto migliore: “The victim was immediately depicted as a martyr to freedom of expression”, ed il resto dell’articolo non è migliore. Anche qui c’è un collegamento, quasi un filo diretto, con l’Italia. Quando, da noi, viene ucciso qualcuno, la tivù si precipita ad intervistare i vicini, i quali puntualmente rispondono sempre allo stesso modo, spiegando che al cospetto dell’ucciso, Martin Luther King era un razzista e Giorgio Perlasca un egoistone. Tutto ciò perché a nessuno passa per la mente che il comandamento che vieta d’uccidere non reca affatto una postilla che lo limiti alle brave persone. Anche il NYT, nel commentare la decapitazione, fa di tutto per dimostrare che, in fondo in fondo, se l’era meritato. Nell’ebraismo, quando si prescrive “non ucciderai” mancano le postille, e questa dovrebbe essere una bella differenza.
Bari Weiss, “editor” del NYT, stanca di essere bullizzata come ebrea, si è dimessa poco tempo addietro, fornendo una spiegazione che, oggi giorno, vale ovunque: “a new consensus has emerged in the press, but perhaps especially at this paper: that truth isn’t a process of collective discovery, but an orthodoxy already known to an enlightened few whose job is to inform everyone else”. Un commento che dovremmo leggere tutti (compreso chi scrive) prima di mettere le mani sulla tastiera, perché questo “new consensus” sarebbe la c.d. correttezza politica, ossia, un marxismo depurato da pretese scientifiche e basato su un codice morale convenzionale ed arbitrario, che postula l’esistenza di un’élite basata non più su Marx bensì sull’egemonia culturale. Non voglio addebitare alcunché a Ronald Dworkin, ma il politicamente corretto ricorda la sua opera più nota “Taking Rights Seriously”, in quanto la vulgata ‘corretta’ è pure asociale, laddove è imperniata sui diritti, tralasciando di considerare che non possono esistere diritti privi di doveri. Le categorie deprivate, protette come panda dal politicamente corretto, non hanno mai dei doveri, potrebbero compiere qualsiasi azione, anche la più efferata, senza che nulla possa essere loro addebitato.
Quanto basta, inoltre, per scomodare “No man is an island” di John Donne: “And therefore never send to know for whom the bell tolls; it tolls for thee “. I versi di Donne sono splendidi perché contrastano con l’asocialità ma, soprattutto, per la loro straordinaria bellezza, tanto da farci sentire in colpa se, imboccando una deriva plebea, ci sentiamo di consigliare, dopo il caso Weiss, di stare in campana, perché i nuovi fanatici, dopo aver espunto la coerenza dal linguaggio, daranno l’assalto anche ai baluardi della ragione.
Emanuele Calò, giurista