Ebrei a Roma, gli anni dall’Unità al ’38
visti attraverso l’esperienza degli asili

In libreria da domani con Fefè Editore, “Ebrei a Roma. Asili infantili dall’Unità alle Leggi Razziali” propone un originale e stimolante punto di vista sul periodo storico che va dalla fine del Ghetto alla stretta antisemita del fascismo. Anni segnati da libertà e diritti sconosciuti, ma anche da una necessaria riorganizzazione di modelli, spazi e strutture. A firmare questo interessante contributo è Giovanna Alatri, laureata in pedagogia, già docente montessoriana e da anni collaboratrice del museo Storico della didattica Mauro Laeng di Roma e dell’Opera Nazionale Montessori.
Si tratta di un libro che, sottolinea nella prefazione che qui vi anticipiamo il rabbino capo rav Riccardo Di Segni, “apre un’ulteriore finestra su un periodo storico che malgrado contributi di studi importanti lascia ancora molto da scoprire”.

L’arrivo del regio esercito sabaudo a Roma, nel settembre del 1870, segnò, per gli ebrei di Roma, ultimi tra gli ebrei viventi in Italia, l’emancipazione da tempo desiderata. Per i circa quattromila ebrei che vivevano nel ghetto iniziò una nuova era che comportò cambi di ogni tipo, nella vita privata e in quella pubblica. Le forme organizzative comunitarie vennero ristrutturate mentre lo stesso storico quartiere dove erano stati rinchiusi per secoli venne demolito. Un problema fondamentale da gestire era, come sempre, quello assistenziale; la struttura sociale della comunità era di tipo piramidale con una larga base di indigenti e strati sempre più sottili di benestanti che dovevano sopperire alle loro necessità. In questa situazione il supporto all’infanzia rappresentava una componente essenziale.
Durante il periodo del ghetto funzionavano due asili distinti, uno per i maschi e l’altro per le femmine. Dopo il 1870 fu avvertita la necessità di riordinare questo servizio, accorpando i due asili, dargli una organizzazione funzionante, una sede dignitosa e un indirizzo pedagogico efficiente. Fu un lavoro lento che durò decenni; la sede inizialmente si spostò da un locale all’altro nel vecchio e malsano ghetto in attesa di demolizione e solo nel 1913 fu possibile avere sul Lungotevere Sanzio una palazzina dedicata a questo scopo. I programmi furono sistematizzati e particolare attenzione fu dedicata ai metodi educativi, introducendo i concetti pedagogici froebeliani che per l’epoca erano una novità.
Di tutta questa vicenda, ancora poco nota e esplorata, parla questo lavoro di Giovanna Alatri che ne mette in evidenza alcuni aspetti significativi. L’autrice di questa ricerca ha sposato un Alatri, pronipote di Samuele Alatri che fu presidente della comunità ebraica per decenni, a cavallo della liberazione dal ghetto, e che ebbe importanti incarichi economici e politici nel Comune di Roma e nel Parlamento. Il figlio Giacomo ne continuò l’impegno comunitario e fu lui il protagonista, dopo Tranquillo Ascarelli, del primo e principale riassesto degli Asili dopo il 1870. Altri Alatri, in seguito, si occuparono a vario titolo degli Asili. In qualche modo questa ricerca racconta una storia di famiglia, ma è una storia che si intreccia con la storia della comunità di Roma e della Roma diventata capitale d’Italia.
La storia degli Asili è esemplare come modello dei processi di integrazione e riorganizzazione degli ebrei romani dopo il passaggio al Regno d’Italia. Particolarmente interessanti sono i documenti portati alla luce, tra i quali i discorsi tenuti in varie occasioni celebrative o di commemorazione, che, per il loro tono enfatico e retorico, danno un’immagine eloquente dello spirito dell’epoca.
Gli amministratori e i sostenitori degli Asili si impegnavano a fornire un’adeguata risposta a un problema sociale molto sentito, certamente educativo, ma con una primaria attenzione alle necessità assistenziali di un pubblico in grosse difficoltà economiche. La preoccupazione di fornire un pasto quotidiano (e non solo in alcuni giorni della settimana) ne è sufficiente dimostrazione. C’era anche la necessità di fornire una formazione religiosa e questo sembra un dato scontato visto il contesto.
Ma questo dato va messo a confronto con un altro: l’assenza di una scuola elementare ebraica. In pratica i bambini ebrei del dopo 1870, finita la frequentazione degli Asili si iscrivevano alle scuole pubbliche, mentre la comunità, dal punto di vista religioso forniva loro in orario extrascolastico un Talmùd Torà che non si sa quanto fosse frequentato e quali servizi offrisse. Bisognerà aspettare il 1924 per vedere nascere una scuola elementare (che sarebbe stata frequentata nei primi tempi solo dalle classi più povere), e questo solo in seguito all’approvazione parlamentare della riforma Gentile che introduceva l’insegnamento religioso cattolico nelle scuole. Fu solo l’atavica opposizione al cristianesimo, rinforzata dalla memoria delle vessazioni dei tempi del ghetto, a riportare la comunità alla coscienza di una necessità di educazione ebraica. Nel frattempo quasi tutto sembrava ridursi alla formazione degli Asili. A proposito del metodo froebeliano è interessante rilevare che uno dei maggiori sostenitori dell’introduzione di questo metodo in Italia fu il triestino Vittorio Castiglioni, che prima di essere rabbino era docente e pedagogo, e che dal 1904 al 1911 fu capo rabbino a Roma; non è escluso, alla luce di quanto emerge in questa ricerca, che questo suo impegno pedagogico sia stato uno dei motivi della sua scelta alla carica.
Questo lavoro apre un’ulteriore finestra su un periodo storico che malgrado contributi di studi importanti lascia ancora molto da scoprire, e ci si augura che sia uno stimolo a ulteriori ricerche.

Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

(Nell’immagine bambini nei vicoli del vecchio ghetto alla fine dell’Ottocento)

(4 novembre 2020)