L’isola delle rose
In questi ultimi giorni ho letto il libro Una voce sottile di Marco Di Porto, recentemente edito da Giuntina, in cui sono ben ricostruiti gli ultimi anni di vita della comunità rodiota, e l’ho fatto in pochissimo tempo come succede quando il tuo interesse è tanto vivo da impedirti di interrompere la lettura.
L’autore ha infatti saputo ricreare molto bene la particolare atmosfera che si viveva nel quartiere ebraico di Rodi nei primi decenni del secolo scorso che a me bambina portavano le lettere della nonna materna, scritte con caratteri ebraici corsivi nell’unica lingua che conosceva, il giudeo spagnolo o jargon, che ormai anche io comprendevo. Mia madre, Rachel Fintz, figlia di una Cohen di nota famiglia rodiota e di padre turco di Smirne, era nata nella piccola isola di Patmos, dove si parlava e si studiava greco, ma poi aveva vissuto a Rodi, in casa della nonna materna Rachel Tarica, andando alla scuola della Alliance Isrealitique dove dal 1911 si insegnava il francese ma anche l’italiano imposto dai nuovi conquistatori delle isole dell’Egeo. Mia madre Rachel era una “poliglotta” ma spesso nel parlarmi usava ancora frasi nell’idioma di famiglia.
Quindi nei ricordi trasmessi dal nonno Samuel Galante alla famiglia dell’autore del libro ho ritrovato quelli miei e nelle descrizioni del quartiere ebraico e di altri luoghi dell’ìsola visitati dal Di Porto ho rivissuto le settimane lì trascorse nel 1937, a poco più di sei anni, nella semplice casa con un grande giardino, dove lo zio Rahamim Cohen ci aveva ospitato chiamandovi anche la madre in modo che potesse almeno in quei giorni “coccolare” gli amati nipotini italiani: parlavamo due lingue diverse ma ci comprendevamo a vicenda!
Mia madre riceveva molte visite, di parenti e amiche, e tra queste mi ricorso bene una Galante, forse zia del Di Porto?
La casa era vicina al mare, nel nuovo quartiere costruito dagli italiani, ma da lì con una lunga passeggiata attraverso il Mandracchio, di cui parla anche l’autore del libro, si raggiungeva il vecchio quartiere ebraico per far visita alla bisnonna quasi centenaria che ci aspettava seduta davanti alla porta, vestita nel costume tradizionale con le monete d’oro sulla fronte, e ci faceva offrire dagli anziani figli maggiori i profumatissimi dolcetti di pasta di mandorle.
Come è evidenziato bene nel libro, il quartiere, privato dai suoi ebrei, ha perso tutta la sua magia! Quando molti decenni dopo vi sono tornata in inverno con marito, figlia e una nipote, per far loro conoscere quei luoghi rimasti tanto presenti nei miei ricordi, ho trovato una città morta, solo a giorni invasa dai turisti in crociera.
Anche io sono andata nel cimitero, molto ben curato, a porre un sassolino sulla tomba della bisnonna, per sua fortuna deceduta dopo la partenza, o meglio fuga di tanti congiunti, come mia nonna Rebecca, verso l’Africa e gli Usa, ma prima della deportazione dei tre figli maschi i cui nomi si trovano nella lunghe lapidi, nella piazza e nell’unica sinagoga rimasta.
Ancora era visibile il luogo dove sorgeva la grande sinagoga, il cal grande, distrutta da un bombardamento aereo all’inizio delle ostilità.
Commovente e ben documentata è la descrizione fatta nel libro della segregazione e della successiva deportazione degli ebrei rodioti, e sono veramente grata all’autore per aver così ben ricostruito e ricordato quanto è avvenuto nella cosiddetta “isola delle rose”, un elemento speso dimenticato quando si parla delle deportazioni avvenute in Italia, cui allora appartenevano anche le isole dell’Egeo.
Lionella Viterbo Neppi Modona
(5 novembre 2020)