Spuntino – Il mondo
in un seme di senape

Nella parashà di Vayerà, Abramo, tre giorni dopo la sua circoncisione, ancora convalescente, nell’ora più calda della giornata, siede sulla soglia della sua tenda e appena scorge tre viandanti corre loro incontro per offrire (letteralmente) poca acqua, un pediluvio e una pausa di relax sotto l’albero (Gen. 18:1-4). Poi, malgrado le sue condizioni ancora precarie, si dà da fare e mobilita Sara e “il” giovane (Ismaele, secondo Rashì) per preparare rapidamente un banchetto ed onorare i suoi ospiti con circa trentasei (!) chili di farina, carne in abbondanza e altre prelibatezze. Così sono i giusti, minimizzano a parole le proprie intenzioni (“poca acqua”) ma nei fatti danno il massimo (nel caso di Abramo organizzando un vero e proprio convivio). Il menù servito include tre lingue di vitello condite con la senape, in ebraico “lashon be-chardal” (Rashì, Gen. 18:7). Perfino un dettaglio come una spezia, che a prima vista può sembrare insignificante, tant’è che Rabbì Chayim Ben Attàr (noto come Or HaChayim) arriva a paragonare il mondo ad un granello di senape rispetto alla grandezza Divina (Gen. 18:21), non è casuale e vuole insegnarci qualcosa. Infatti BeChardal si può leggere, anagrammando, in tre modi diversi allusivi (Kol Eliyahu, Bava Metziy’a 86b): chadel rav, cioè schiva l’abbondanza; chared lev, (sii) timorato nel cuore; bechar dal, prediligi il povero (o la povertà). E il riferimento è ai tre pilastri su cui si regge il mondo (Massime dei Padri 1:2): Torà (da cui si apprende che bisogna sapersi accontentare), ‘Avodà (cioè sacrifici e preghiere, che implicano un atteggiamento dimesso), Gmilut Chassadim (le opere di bene indirizzate alle categorie più deboli).

Raphael Barki