La scuola debole

Davanti a una situazione davvero difficile da sostenere, nella quale neppure un dramma nazionale come quello che stiamo vivendo riesce a placare la sconfortante polemica tra governo e regioni e in cui la pura demagogia di parte ostacola il necessario sforzo congiunto di fronte all’emergenza, nessuno sembra dare peso a quella che a mio giudizio è la conseguenza più grave dei doverosi (ma tardivi) provvedimenti appena assunti: la rinnovata semi-chiusura della scuola. Da nessuna parte ho letto o sentito questa semplice, ingenua domanda: perché in paesi dove la pandemia infuria in modo analogo o anche più grave rispetto all’Italia e dove pure sono state assunte nei giorni scorsi misure di lockdown soft (Francia, Spagna, Belgio, Svizzera, Germania, Gran Bretagna) la scuola resta generalmente aperta a tutti i livelli e solo in situazioni locali di forte concentrazione del contagio si ricorre alla didattica a distanza, mentre da noi la secondaria superiore chiude in blocco e deve ovunque ripiegare sulla Dad, che in zona rossa viene addirittura imposta a seconda e terza media?
Dalla metà di settembre a oggi le nostre scuole hanno dimostrato di saper gestire in maniera egregia situazioni di estrema difficoltà, assicurando in ogni fase controlli, uso di mascherine, distanziamento, misure igieniche; aiutando anzi gli studenti ad acquisire una certa positiva “familiarità” col clima pesante e surreale indotto dalla pandemia, una confidenza utile a sopravvivere nel quotidiano mantenendo una basilare normalità nell’eccezionalità di questa epoca, e quindi preziosa per evitare psicosi e traumi legati a uno sconvolgimento dei modi di vita. E’ merito del ministro dell’istruzione Lucia Azzolina aver più volte sostenuto con forza (finalmente, dopo mesi di inerte arrendevolezza o di vacua insistenza sui “banchi a rotelle”) le ragioni e le buone pratiche della scuola italiana. Purtroppo però, nonostante la sovraesposizione mediatica dei mesi scorsi e una innegabile capacità dialettica, il responsabile dell’istruzione è stato messo repentinamente a tacere quando si trattava di prendere con urgenza le decisioni importanti, drastiche e generali: a scanso di equivoci, checché ne dicesse Azzolina la scuola è stata di fatto nuovamente chiusa, o quasi. Cosa che altrove in Europa nessuno ha fatto, e neppure si sarebbe sognato di fare.
L’unica giustificazione apparentemente plausibile della difformità italiana rispetto ai parametri europei (difformità che esiste solo sulla questione scuola, si noti) è in realtà anche un’aperta ammissione dei limiti strutturali – o meglio, infrastrutturali – del nostro paese. In realtà, non è per responsabilità dell’apparato scolastico che le aule restano inaccessibili, ma per l’incapacità del sistema dei trasporti di garantire contemporaneamente un adeguato distanziamento e un’adeguata frequenza nelle fasce orarie “calde” dell’entrata e dell’uscita. Ma se questo è il punto, perché non rendersene conto in anticipo rispetto a una prevedibilissima (e previstissima) seconda ondata del virus? E perché non elargire allora cospicui finanziamenti per l’adeguamento del sistema dei trasporti? E se gli stanziamenti alle Regioni e ai Comuni, come pare, ci sono stati, perché non vincolarli rigidamente nel tempo alla loro effettiva destinazione? Perché non mettere poi in piedi una efficiente task-force di tecnici in grado di intervenire regionalmente per migliorare qualità ed efficacia del servizio? Di fronte a grossi problemi di fondo, si è preferito aggirarli e bloccare di nuovo la scuola, causa certa di pericolosi assembramenti. Perché appunto, in fondo in fondo e particolarmente nella fase attuale, al netto di tante altisonanti dichiarazioni la scuola rappresenta questo per i nostri vertici esecutivi: una “causa di pericolosi assembramenti”.
Ma se proviamo ad andare al di là della causa immediata e torniamo a chiederci quali sono le radici profonde del rinnovato sacrificio della scuola, allora la questione si fa più seria e rivela carenze nella mentalità, nella visione politica e istituzionale della nostra classe dirigente. C’è poco da fare, da noi la formazione pubblica non è considerata come altrove struttura portante e irrinunciabile, base strategica, pietra angolare della società. E’ invece spesso vista come un elemento significativo ma accessorio, un aspetto settoriale che per il momento è possibile accantonare; o al quale è possibile offrire uno sbocco parziale e approssimativo come la Dad. Dovrebbe però ormai essere chiaro a tutti che la didattica a distanza può rappresentare al più un utile strumento didattico accanto a sistemi di formazione in presenza, un succedaneo della presenza fisica individuale non in grado di ricreare la dimensione della socialità e del coinvolgimento collettivo così importante in ambito docimologico, dunque un sistema di informazione più che di formazione, vincolato alla trasmissione unidirezionale di nozioni più che alle dinamiche interattive tipiche della scuola.
Per innescare una svolta basterebbe, in fondo, che i nostri governanti interpretassero appieno il dettato costituzionale e capissero quanto la formazione autentica, realizzabile solamente nella concreta pratica scolastica, sia basilare per la stessa sopravvivenza sociale e nazionale. Può apparire retorico, ma credo risponda al vero affermare che il nutrimento formativo/culturale della scuola è indispensabile quanto quello fisico degli alimenti, che il cibo spirituale dell’istruzione è vitale al pari di quello materiale del cibo; e che dunque non è meno essenziale l’apertura e il funzionamento delle scuole rispetto all’agibilità dei supermercati.
David Sorani