Machshevet Israel
Semiotica ebraica

“Per una semiotica delle Scritture ebraiche” è il sottotitolo programmatico del volume Il resto è interpretazione (da poco edito da Salomone Belforte di Livorno) che raccoglie ricerche e riflessioni, svolte nell’arco di vent’anni, dall’autore: Ugo Volli, stimato docente dell’Università di Torino e impegnato su più fronti nel mondo ebraico, certamente tra i maggiori esperti di semiotica, disciplina analitica che affonda le sue radici nell’opera di Aristotele ma è stata definita come tale solo nell’ultimo secolo, in equilibrio instabile ma creativo tra linguistica e filosofia. Che essa possa avere un côtè ebraico lo mostra felicemente questo testo che si cimenta con le molte declinazioni possibili del metodo semiotico alla lettura delle Scritture del giudaismo (Tanakh, Talmud, Zohar…), evidenziando al contempo tutta la potenzialità euristica dell’ermeneutica rabbinica. Esegeti e pensatori del giudaismo si troveranno in quest’opera come i quattro maestri che entrarono nel pardes, di cui parla il trattato talmudico Chaghigà 14-15, ma ne usciranno integri e arricchiti come rabbi ‘Aqivà, se avranno la pazienza di attraversare le sue 500 pagine fino alla fine gustando l’erudizione e la sagacia del loro autore.
Emblematiche le parti dedicate al tema della trascendenza, con un excursus storico-filologico del termine, che in effetti significa quel significa solo a partire dall’epoca moderna, quando è diventato (con la T maiuscola) sineddoche del divino. Ora, un semiologo è tale quando riporta il reale nell’orizzonte del linguaggio e mostra che tutto è linguaggio. Ugo Volli fa esattamente questo: ci ricorda che tutto ebbe inizio con alcuni ‘atti linguistici’: tanto la storia del mondo (le dieci espressioni performative dette in ebraico ‘asarà ma’amarot) quanto la storia di Israele (le dieci parole imperative, ‘aseret hadiberot) e che dunque la Trascendenza si rende conoscibile per questa sua volontà di interazione e di comunicazione, per questa sua capacità dialogica ma anche dialettica. Infatti, per paradosso, interagendo e comunicando, essa allenta parte della sua qualità trascendente e assume, almeno un po’, la qualità dell’immanenza. Citando rav Laras, Volli fa corrispondere la dimensione trascendente alla nozione biblico-rabbinica di qedushà (santità/separazione) e la dimensione immanente alla nozione di kavod (gloria/gravità), mostrando tutta la forza di questa duplice, opposta vettorialità: di Dio verso il basso e dell’uomo verso l’alto. Tale tensione ossimorica – come ogni aspetto del linguaggio della rivelazione biblica e persino del pensiero rabbinico – si manifesta nella prassi, di cui ogni religione ha bisogno, del rappresentarsi Dio, anche quando si vieta di rappresentarLo, perché nulla nega la trascendenza più del darle forma, umana o animale che sia (pena il cadere nell’idolatria).
Per decifrare i “segni relazionali” e i paradossi della comunicazione tra divino e umano, il semiologo torinese non esita a far interagire Platone e Kant con Rashi e Yehuda haLevi, Kereny e Dorfles con Maimonide e Shadal, Lacan e Lotman con Levinas e il midrash, la filologia protestante sul Pentateuco con le tradizionali interpretazioni rabbiniche sulla Torà… riuscendo convincente nel mostrare come – ragionando sulle figure dei keruvim, i cherubini, sulla copertura dell’arca (Shemot/Es 25,18-22), di cui discute spesso il Talmud – anche una cultura aniconica come quella ebraica nasconda al proprio centro un complesso sistema simbolico, il quale “come una sorta di specchio riflette la condizione umana e la sua debolezza di fronte a Dio”.
Tratto comune tra semiotica e giudaismo non è solo il carattere di prospettiva olistica sul mondo, che tutto include come lenti sugli occhi; è anche la pretesa di spiegare il mondo attraverso una struttura di senso e, con essa, fondare il valore del mondo stesso, narrato come letteratura religiosa per i credenti o come narrativa mitica per i non credenti (che tuttavia non possono non restare affascinati dalla ricchezza di significati che i segni polisemitici dei testi sacri offrono ai chi, con fame pantagruelica, cerchi di coglierli ed elaborarli). Davvero tutto è interpretazione, ossia: testo e contesto, linguaggio e azione, citazioni e spazi vuoti, almeno in questa sintesi magistrale di Ugo Volli, che ben figura nella collana ma‘alot/Biblioteca di storia e di pensiero ebraici diretta da Vittorio Robiati Bendaud. Una nota affettiva: il volume è dedicato alla memoria della prozia dell’autore, l’ebrea triestina Gemma Volli, che ebbe il coraggio negli anni Cinquanta di andare a Trento e scavare negli archivi la falsa santità del Simonino, il cui culto poggiava dal 1475 sull’ingiustizia di un processo per ‘omicidio rituale’. Le sue ricerche spinsero gli storici locali a fare altrettanto: nel 1965 le autorità ecclesiastiche abolirono quel culto, smentendo molte decine di supposti miracoli e ripristinando l’innocenza e l’onore degli ebrei ashkenaziti, donne e uomini, che di quella macchinazione antiebraica furono vittime.

Massimo Giuliani, Università di Trento