Spuntino – In fin dei conti

“Vayheyù Chayè Sarà …” (= E la vita di Sara fu di cento anno, venti anno, sette anni, gli anni della vita di Sara) (Gen. 23:1). Il primo verso della parashà, usando il plurale “anni” solo per le unità (sette) ma non per le decine e centinaia (che insieme, forse non a caso, ammontano agli auspicabili centoventi), ci suggerisce che la quantità non implica necessariamente buona qualità, al contrario, è più rimarchevole chi, minimizzando, osserva un profilo basso. Rashì, spiegando la ripetizione della combinazione “vita di Sara” all’inizio e alla fine dello stesso versetto, commenta che i 127 anni di Sara erano tutti buoni in egual misura. In altre parole la matriarca era riuscita a mantenere costante e salda la propria fede malgrado le non poche peripezie affrontate nel corso della sua vita, tutte accolte senza incrinature. Un’altra interpretazione è che gli anni di Sara erano stati benèfici perché tutto è bene (anche le avversità lungo il percorso) quel che finisce bene. Nel caso di Sara gli ultimi 37 anni, a partire dalla nascita del tanto atteso figlio, Isacco, sono stati i migliori. Rabbenu Bechaye Ben Ashèr nota che 37 è il valore numerico della parola di apertura Vayheyù, che precede Chayè Sarà, come se la vita di Sara fosse cominciata a novant’anni, raggiunta la maternità. Questa idea del lieto fine ritorna anche nel Talmud: “kal de-Rachmana ‘avid, le-tav ‘avid” (= tutto ciò che D-o fa, lo fa a fin di bene) (Berakhot 60b). Lo dice Rabbì ‘Akiva accettando con una fede incrollabile una serie di spiacevoli sventure che, solo a posteriori, si dimostrano provvidenziali. In un certo senso lo stesso concetto, a cui dovremmo ispirarci, viene ribadito, nel secondo capitolo della parashà, in riferimento alla saggezza di Abramo che, “anziano, avanzava nei giorni” (Gen. 24:1). Abramo era un cosiddetto Mari DeChushbana, cioè si preoccupava di mantenere un bilancio positivo delle proprie opere di bene mediante un quotidiano esame di coscienza. Ogni singolo giorno era per lui importante e non poteva considerarsi in “attivo” senza aver ospitato o aiutato qualcuno.

Raphael Barki