Trump e il trumpismo

“Potrei stare in mezzo alla Quinta Strada e sparare a qualcuno, e non perderei neppure un elettore”. Donald Trump si espresse così nel 2016 in un evento elettorale nello Iowa quando non era ancora presidente degli Stati Uniti. Penso che per molti trumpiani di ferro anche se Trump effettuasse un colpo di stato militare – eventualità assurda ma che alcuni media, tra cui Haaretz, non considerano del tutto fantascientifica – l’apprezzamento nei suoi confronti rimarrebbe comunque inalterato. Trump già prima delle elezioni aveva affermato che se sconfitto non avrebbe accettato il risultato elettorale e già prevedeva come un chiaroveggente i brogli.
Negli ultimi anni, a causa anche della particolarità del sistema elettorale statunitense, colui che è diventato presidente difficilmente ha raccolto anche la maggioranza del voto popolare e le elezioni sono state vinte talvolta per una manciata di voti, come nel 2000 nella sfida tra Bush Jr. e Al Gore. Eppure sembra che l’unico risultato che non possa essere accettato per taluni sia quello che decreta la sconfitta di Donald Trump con un margine di oltre cinque milioni di voti da parte di Joe Biden. La transizione e il passaggio di consegne tra un presidente e l’altro è sempre avvenuta negli Stati Uniti senza grandi difficoltà, ma come scrive Andrew Higgins sul New York Times “negare la sconfitta, rivendicare la frode e usare i meccanismi del governo per invertire i risultati delle elezioni sono gli strumenti consacrati dai dittatori.” Proprio di quei regimi dell’Est Europa o del Sud del mondo che gli Stati Uniti hanno nell’ultimo secolo spesso contestato. Le tattiche, continua Higgins “includono anche il minare la fiducia nelle istituzioni democratiche e nei tribunali, attaccare la stampa e diffamare gli oppositori”, atteggiamenti del resto molto comuni in Trump e che hanno fatto scuola anche nei populisti in Europa i quali hanno trovato in Trump un modello. Se anche Biden entrerà in carica il 21 gennaio, come afferma Annie Appelbaum su Atlantic, Trump infonderà comunque nei suoi sostenitori l’idea che Biden sia un “presidente illegittimo”, e che gli statunitensi siano caduti vittima di un complotto internazionale, dei media, e delle istituzioni ai loro danni, le idee di QAnon che teorizzano questi meccanismi cospirativi sono già in voga da tempo. I tentativi di Trump di restare aggrappato al potere dovrebbero in qualche modo impallidire chiunque creda nella democrazia e abbia a cuore quella statunitense, ma sembra non sia propriamente così. Se per alcuni Trump è solo il “meno peggio” per altri Trump è un leader infallibile, uno che anche se palesemente mente ha comunque ragione e deve essere sostenuto. Come per altri leader della storia occidentale v’è nei suoi confronti una sorta di “fascinazione”, un termine che l’antropologo Ernesto de Martino elaborò affrontando il tema della magia nel Meridione: “una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di dominazione, […] che lascia senza margine l’autonomia della persona, la sua capacità di decisione e di scelta.” I parametri “liberali” e “democratici” nel giudicare Trump per alcuni individui che hanno sempre tenuto questi in grande considerazione sono completamente inibiti.
Resta da chiedersi dopo Trump (se un dopo ci sarà), quanto il trumpismo ancora durerà, se questo fenomeno esiste davvero, se si tratta di un’anomalia passeggera o se invece si solidificherà e acquisterà nuovo vigore. Nella contemporaneità le ideologie se permangono sembrano molto più sfumate rispetto al passato, i leader spesso sono estemporanei e “usa e getta”, si reggono grazie a un grande sostegno e fervore momentaneo, quasi religioso e idolatrico, ma poi spariscono e se ne creano di nuovi o di peggiori, per quanto lascino tracce indelebili nella società e soprattutto nella mentalità degli individui. Si può considerare per esempio ancora vivo il berlusconismo?
“Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria”: Marshall Berman, riprendendo una frase di Karl Marx, scrisse un magnifico saggio su come nella modernità ciò che è nuovo diventi in poco tempo già vecchio e da scartare. Chi teme i fenomeni e certi leader del presente potrebbe rincuorarsi su questo. Ma nel caso di Donald Trump e di altri revanscismi che riportano in auge il sovranismo bianco negli USA, potrebbe considerare anche i fattori demografici. Se Trump rispetto al 2016 è riuscito a raccogliere qualche consenso in più tra gli afroamericani e i latinos, ciò non è stato la regola che lo ha portato alla vittoria, facendogli perdere anzi Stati tradizionalmente repubblicani. Sempre che Trump non muti di colpo la propria retorica e il suo bacino elettorale difficilmente potrebbe raccogliere ulteriori voti rispetto a quelli consolidati ed ottenuti nel 2016 e a questa tornata. Anche il suo sostegno a Israele non ha smosso la tradizionale preferenza per gli ebrei statunitensi nei confronti del Partito Democratico, impaurendo semmai ancora di più coloro che già lo temevano quattro anni fa. Ciò che vediamo adesso è un paese fratturato, diviso tra due contrapposizioni “con due idee incompatibili su ciò che dovrebbero essere gli Stati Uniti” – come l’ha descritto Simon Schama sul Financial Times -. Ma gli Stati Uniti sono destinati ad essere in futuro sempre più un paese con meno cowboys e rednecks che si aggirano con SUV e bandiere sudiste, ma piuttosto un luogo dove “ogni 30 secondi un giovane latino compie 18 anni”, proiettato verso le grandi metropoli dove la popolazione vive in un contesto inevitabilmente multiculturale e più coinvolto verso ciò che accade nel globo. Circostanze queste che colui che si candiderà nuovamente nel 2024 dovrà tenere ben presente.

Francesco Moises Bassano

(13 novembre 2020)