L’impero del falso
Un tempo si falsificavano oggetti commerciali di valore e li si spacciava per autentici. Oggi lo si fa anche e soprattutto con le informazioni e le notizie. Una cosa non ha sostituito l’altra; semplicemente, si sono in parte sommate e in parte sovrapposte. In fondo, entrambe hanno il medesimo obiettivo di fondo, quello di trarre un illecito profitto inducendo gli ingannati a credere nella bontà di quanto viene offerto loro, orientandone quindi i comportamenti e le scelte. Di natura economica e mercantile ma anche sul versante politico. Il falso condivide, in tutte le circostanze, la medesima natura: serve a scompaginare volutamente il confine tra autentico e adulterato, confondendo le persone. Un fake, che si tratti di un bene di lusso taroccato piuttosto che di una news inesistente, non corretta oppure manifestamente erronea, ha ad obbiettivo non l’oggetto che riproduce in sé ma la reazione che induce nei destinatari. Il falso, infatti, è soprattutto un mezzo – di natura fisica, materiale così come di impianto puramente simbolico – attraverso il quale si influenza l’atteggiamento di coloro che ne costituiscono la platea di riferimento. Siamo nel campo dell’illusionismo di massa, che non riguarda mai il capire ma il credere, non l’analizzare ma l’assimilare (acriticamente). Ragion per cui, soprattutto nell’età della comunicazione digitale, la falsificazione non è mai un fine in sé bensì un procedimento per ottenere altri risultati che, altrimenti, non si potrebbero raggiungere da sé. Come nella vendita di un falso d’autore il vero fuoco della transazione è l’estorsione attraverso la persuasione (ti sottraggo denaro facendoti credere che in cambio otterrai un oggetto che, nei fatti, tuttavia non è ciò che dico che sia) al pari, nella propalazione di notizie adulterate e manipolate, ciò che conta è il processo di suggestione (ti rubo attenzione e impegno condizionando il tuo pensiero e, con esso, i tuoi atteggiamenti e le tue condotte a venire, facendoti credere, o comunque disponendoti a credere, un qualcosa che non è così come te lo presento). In entrambi i casi entra in gioco il desiderio di possedere (un bene) o ritenere di avere raggiunto una verità. Un fake non funziona da sé, per il fatto stesso che sia generato e poi messo in “circuito”. Nell’infinita quantità di particelle di informazione che ogni giorno vengono prodotte e fatte circolare nel mondo della comunicazione, infatti, solo una parte di esse riesce a sfondare il muro dell’attenzione collettiva. Affinché ciò avvenga, oltre a risultare persuasive debbono anche raggiungere l’obiettivo di soddisfare un bisogno. Chi assimila il falso spesso lo fa in buona fede. Non è quasi mai in gioco il fondamento della sua ricerca di autenticità bensì il bisogno di credere in qualcosa (e qualcuno). Magari arrivando a piegare e a subordinare qualsiasi riscontro di fatto alla necessità di fidelizzarsi a ciò che ha ascoltato, riscontrandosi quindi in esso in maniera passionale e, quindi, sostanzialmente acritica. Quand’anche, ad una verifica, il “sentito dire” potrebbe invece rivelare la sua inautenticità. Il fake, quindi, gratifica in maniera perversa questa esigenza elementare, che ognuno di noi coltiva. Anche per questo la sua plausibilità risulta rafforzata. Poiché non conta solo quello che si dice ma il come lo si fa, insieme al contesto in cui ci si pronuncia o si ascolta quel qualcosa di condiviso. Il falso, molto spesso, si riveste infatti di una sua presunta “autorevolezza”. Che oggi riposa nella sua stessa ossessiva ripetizione tra l’opinione pubblica. Fake e menzogna, due nomi che diamo allo stesso meccanismo moderno della superstizione ipermeditizzata e supertecnologica, non potrebbero mai dispiegare i loro dannosi effetti se non ci fosse un uditorio – che oggi chiamiamo “audience” – volenterosamente disposto a berne l’amaro e velenoso calice, per di più compiacendosene. In fondo, si sa quanto le strade dell’inferno siano lastricate di un profondo autoinganno.
Claudio Vercelli