Il ritorno della diva Loren
tra errori e paradossi
Il lancio del nuovo film di Sofia Loren è stato geniale, uscito il primo venerdì di lockdown quasi totale in tutta Italia, ha fatto trionfare Netflix, anche in assenza di controprogrammazione delle reti in chiaro. La Palomar, la casa di produzione di Carlo Degli Esposti, può intestarsi l’unico successo del film.
Mentre la scelta della location per La vita davanti a sé incomprensibilmente – Bari, Trani, Barletta – sembra più dovuta ai contributi di Apulia Film Commission, che ad una richiesta del regista, per diritto dinastico.
Venendo agli attori bravi i ragazzini e la bambina, anche se poco contestualizzati, solo il dottor Cohen interpretato da Renato Carpentieri è perfetto e la Loren un dogma che non si discute, ma non si capisce che ci azzecca con il coté juif, il numero tatuato di Auschwitz può funzionare come indizio, ma non basta.
Quando poi prepara il ragazzo per il bar mitzvah è tanto poco credibile che smette subito, delegando l’insegnamento dell’ebraico al ragazzo senegalese, aggiungendo paradosso al paradosso.
Il finale dimostra la poca attenzione ai particolari di regista e produttore, basti pensare al funerale della protagonista in un cimitero che pretendeva di essere ebraico con poche lapidi incise col Magen David, fatte in serie, mentre sullo sfondo campeggiavano le cappelle tipiche di un cimitero cattolico.
Per la cerimonia funebre bastava aver visto cento film americani dove ci sono sempre 10 uomini e si recita il kaddish, ma è mancato un consulente preparato e in questi tempi i produttori sono più attenti al risparmio che al risultato.
Se questa era la jewish way per il ritorno in America della grande diva italiana: auguri!
Vittorio Ravà
(16 novembre 2020)