Oltremare – All’ora di Neilà,
la guerra più terribile

Qualcosa di storico sta succedendo in queste settimane in Israele. Qualcosa che può sembrare piccolo, relativamente: una serie tv, niente di più. Otto episodi che però, nei limiti di una fiction, sono la cosa più vera, presente e tremenda che sia mai stata messa su schermo per provare almeno a raccontare la Guerra del Kippur. Anche se si concentra su soli tre giorni e solo sul fronte del Golan, attaccato dalla Siria, i temi che apre valgono abbastanza anche per il fronte sud con i fortini sul canale di Suez azzerati dagli egiziani in 48 ore, e la stessa dinamica di sorpresa, difesa, contrattacco troppo lento, perdite enormi, shock nazionale. Non sarà un caso che siano passati 47 anni da allora e il paese sia ancora largamente in post trauma da Yom Kippur.
La mia generazione, quella che allora ancora non c’era, o che c’era a malapena, sta guardando “Sha’at ha-Neila” ovviamente in ore sparse, usando le registrazioni disponibili sul sito della rete nazionale, Kan. La generazione che invece c’era, probabilmente per un fatto di antica abitudine alla visione dei programmi al momento della programmazione, la guarda davvero ogni lunedì sera. E ricrea così quella comunione di esperienza che solo una sala cinematografica gremita oppure, appunto, la visione contemporanea, pur se ciascuno nel suo salotto, può dare. Come per certe finali della coppa del mondo, come per quegli eventi che trascendono ogni altra divisione della società, e áncorano tutti senza distinzione al divano, il telecomando abbandonato da qualche parte inerte e inutile.
Le prime due puntate le ho viste anche io all’ora della programmazione televisiva, dopo il telegiornale della sera. E ho avuto subito la sensazione che quello che stavo vedendo era molto di più di una semplice serie in tivù. Il realismo delle inquadrature, dei dialoghi, lo studio dei personaggi creano una mappa ideale della realtà israeliana nei primi anni Settanta, la base umana e culturale di quello che succede su tutti i fronti attaccati.
Noi italiani abbiamo studiato a scuola come l’Italia, una volta fatta, è diventata un paese anche durante la Prima Guerra Mondiale, per via del mescolarsi di genti da tutta la penisola isole comprese, uomini che combattendo insieme hanno amalgamato – almeno in parte – le loro identità locali e regionali, acquisendo un’identità italiana aggiuntiva. In Israele questo è successo già a partire dal ’48, con la Guerra d’Indipendenza. Ma per qualche motivo si è dato per scontato che da lì in poi l’esercito, come la scuola e il mondo del lavoro, avessero da subito, quasi senza fatica, livellato tutti i distinguo culturali e sociali; fra i pregi notevoli di questa serie tv c’è invece proprio il mettere in primo piano nelle vite dei soldati l’appartenenza di ciascuno, spesso mista ma a volte fortemente connotata, anche politicamente. I kibbutznikim ashkenaziti e gli attivisti del movimento delle Pantere Nere (che logicamente parlano arabo fra loro, essendo di origine marocchina) servono nello stesso carro armato, e non è umanamente pensabile che le forti tensioni della società di quegli anni, le manifestazioni e le proteste, non avessero un riverbero anche lì dentro, nello spazio claustrofobico del tank, fra compagni ammazzati dai cecchini siriani o finiti sotto fuoco amico. La serie rispetta questa realtà dialettica e problematica di fondo.
Ma credo che la protagonista vera sia la confusione, la sorpresa vera e quasi tattile, tradotta nel puro terrore negli occhi delle vedette che faticano a credere a quello che vedono attraverso il binocolo quando i siriani arrivano in forze, del tutto inattesi; e questa rappresenta anche una accusa dura ai leader dell’epoca. La loro incapacità, e quella di tutto il popolo insieme a loro, di prevedere, prepararsi, attivare le difese necessarie per fermare eventuali attacchi inattesi. Il fumetto rosa nel cielo blu dei protagonisti all’inizio è sempre e ancora la vittoria in soli sei giorni nel ’67, ovvio nella teoria ma messo qui in diretto rapporto causa/effetto con la strage di giovani soldati israeliani, giovani di leva o riservisti, nel 1973, che avrebbe potuto forse essere evitata.
Le ferite profonde e multigenerazionali di quella guerra, la più terribile, sono ancora aperte, e la serie si propone come mezzo per guardarci dentro. Chi vuole capire Israele più in profondo, al di là delle piccolezze della politica o della semplificazione di troppi titoli di giornale, dovrebbe proprio vedere la serie “Sha’at ha Neila” (All’ora di Neilà), già disponibile negli USA con sottotitoli in inglese su HBO Max, che l’ha comprata al volo ancora prima che arrivasse sugli schermi israeliani.

Daniela Fubini