Ammonimenti e speranze

“Certo, qualcuno si oppose, qualcuno tra i condannati mostrò coraggio e tenacia, ci furono delle sommosse, alcuni misero a repentaglio la propria vita e quella dei propri cari pur di salvare persone che conoscevano appena o non conoscevano affatto. E tuttavia la remissività della massa resta un fatto inconfutabile.
Che cosa ne deduciamo? Un nuovo tratto della natura umana? No. Piuttosto un nuovo modo, tremendo, di plagiare gli esseri umani. La violenza estrema dei sistemi totalitari si è mostrata capace di paralizzare i cuori su interi continenti.
Asservito al nazismo, il cuore dell’uomo proclama che la schiavitù – male nefando, latrice di morte – è il solo e unico bene. Il cuore-traditore non rinnega i propri sentimenti umani, ma elegge a forma suprema di umanità i crimini compiuti dal nazismo e accetta di dividere gli uomini in puri e degni di vivere e impuri e indegni della vita.
Per sopravvivere l’istinto scende a patti con la coscienza. In suo soccorso sopraggiunge la forza ipnotica di idee grandiose. Che esortano a compiere qualunque sacrificio, a usare qualunque mezzo per raggiungere lo scopo supremo: la grandezza futura della Patria, la felicità del genere umano, di una nazione o di una classe, il progresso mondiale.
Ma accanto all’istinto di conservazione e alla fascinazione delle teorie agisce anche una terza forza: la paura al cospetto di una violenza senza limiti di uno Stato potente, il terrore di fronte all’assassinio posto a fondamento della quotidianità.
In uno Stato totalitario la violenza è talmente grande che smette di essere strumento e diviene oggetto di culto e di esaltazione mistica e religiosa.
(…)
La gloriosa rivolta del ghetto di Varsavia, a Treblinka e a Sobibor, per esempio, l’imponente movimento partigiano in decine di paesi che Hitler aveva asservito, i disordini di Berlino del 1953 e in Ungheria nel 1956, dopo la morte di Stalin, così come le rivolte nei lager della Siberia e dell’Estremo Oriente sovietico, i moti di liberazione della Polonia, il movimento studentesco per la libertà di pensiero in numerose città, gli scioperi in molte fabbriche, hanno dimostrato che il desiderio di libertà non può essere sradicato. E’ stata soffocata, la libertà, ma è sopravvissuta. Un uomo ridotto in schiavitù diventa schiavo per volontà della sorte, non per sua natura.
Il desiderio congenito di libertà non può essere amputato; lo si può soffocare, ma non distruggere. Il totalitarismo non può fare a meno della violenza. Se vi rinunciasse, cesserebbe di esistere. Il fondamento del totalitarismo è la violenza: esasperata, eterna, infinita, diretta o mascherata. L’uomo non rinuncia mai volontariamente alla libertà. E questa conclusione è il faro della nostra epoca, un faro acceso sul nostro futuro.”

(Vasilij Grossman, Vita e destino, trad. it. Di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2008, pagg. 196-197, 198)

La possente prosa di Vasilij Grossman scandaglia da par suo l’essenza mortifera dei regimi totalitari e gli anfratti dell’animo umano. Leggere oggi queste pagine, capaci come poche altre di portare alla luce gli abissi di cui si nutre il potere e l’insopprimibile sete di libertà che alimenta la vita umana, ci rovescia addosso l’eredità schiacciante del Novecento. Un lascito per certi aspetti annichilente, che ci spinge però anche a riflettere sul demone totalitario sempre in agguato (oggi in Cina, in Iran, in Turchia, in Russia, in Ungheria; domani chissà) e sulla debolezza del sistema immunitario delle nostre società, particolarmente in fasi di crisi globali ed endemiche come quella prodotta dall’attuale pandemia. Un’eredità dalla quale è tuttavia possibile trarre impulsi di speranza e rigenerazione, se sapremo dare sostanza al bisogno di libertà connaturato all’uomo. Se sapremo far rivivere in noi la stessa spinta affrancatrice che, fatti i debiti distinguo tra situazioni assai diverse, spingeva i combattenti del ghetto di Varsavia, gli studenti del Sessantotto, gli operai davanti ai cancelli delle fabbriche.

David Sorani

(17 novembre 2020)