Machshevet Israel
Mekhiltà

Le edizioni Qiqajon di Bose hanno appena pubblicato la traduzione italiana della Mekhiltà di Rabbi Shim‘on bar Yochai, popolarmente conosciuto come il grande mistico cui a lungo fu attribuito lo Zohar e che, in termini storici che si basano sulle fonti talmudiche, fu uno dei principali allievi di Rabbi ‘Aqivà. Forse il suo allievo più radicale, dicono gli esperti, nel senso che la sua propensione all’ascesi, alla trascendenza e alla dedizione allo studio potevano persino urtare altri maestri più inclini a vedere il tov, il bene, implicito nel fare semplicemente il proprio dovere in questo mondo, come Rabbi Yishmael. È quest’ultimo a dare il nome alla versione della Mekhiltà (che significa ‘trattato’) che meglio conosciamo, tra i più antichi midrashim all’Esodo. Esiste però anche una seconda versione attribuita appunto a Shim‘on bar Yochai, più breve e in alcune parti identica all’altra, sempre di natura halakhica (perché accanto all’esegesi aggadica si precisano alcune norme sui riti della pasqua) e giunta a noi in forma di multiple citazioni. Di fatto si può dire del tutto ‘ricostruita’. Traduzione e note sono dell’ebraista Alberto Mello, il quale ricorda come questa antica fonte di pensiero ebraico sia stata “filologicamente ricomposta a partire da frammenti conservati in un’opera medievale di provenienza yemenita, il Midrash ha-gadol, e in diversi manoscritti rinvenuti nella ghenizà del Cairo [alla fine del XIX secolo], ed è solo convenzionalmente attribuita al discepolo di Rabbi ‘Aqivà”. Anche l’organizzazione in capitoli è opera dei moderni editors.
Dei molti commenti e meshalim (parabole) offerti dai maestri citati in questa versione della Mekhiltà segnalo quelli sull’episodio delle mormorazioni contro Mosè, quando i figli di Israele arrivarono a Mara e non poterono dissertarsi, perché le acque locali erano ‘acque amare’. In effetti l’Esodo è un testo nel quale le acque sono molto presenti: le acque del Nilo, quelle del mare dei giunchi, quelle nel deserto… e sempre appaiono nel segno dell’ambivalenza: dolci o salate, esse salvano ma anche annegano, salvano Mosè e gli ebrei ma si richiudono come una tomba su faraone e gli egiziani. A Mara sono imbevibili, e il popolo assetato si lamenta (giustamente). Mosè grida allora verso Il Cielo e il Signore benedetto gli mostra un legno che, gettato nelle acque amare, le trasforma in acque dolci (Shemot/Es 15,23-25).
Testo non facile da spiegare il cui ‘miracolo’, che ruota su quel legno (etz), è a sua volta un enigma. I maestri si chiedono che tipo di legno sia. Era un salice, dice R. Yehoshua. No, era un ulivo, dice R. El‘azar di Modi‘in. Natan ben Josef non è d’accordo: era un legno di cedro, il cui frutto (usato nella festa di Sukkot) è bello ma aspro. In ogni caso, salice o ulivo o cedro, si tratta di legni dal gusto amaro. Amaro contro amaro, il ‘miracolo’ sarebbe una terapia omeopatica. I maestri la conoscevano riferendola a Dio: “Un uomo non guarisce con ciò che lo ferisce, mentre il Santo benedetto guarisce con ciò che ferisce” leggiamo a commento di Shemot/Es 14,24 per indicare il castigo agli egiziani ‘per contrappasso’: middà keneghed middà, misura per misura: nel Nilo hanno annegato, il Nilo li annega! Così il legno amaro cura le acque amare e le cambia in acque dolci: vero miracolo divino. No, dicono altri: era un legno di fico, oppure era di melograno, frutti (e alberi) dolci; dunque l’amaro si cura con il dolce! È buon senso, e il miracolo sta nel buon uso dell’esperienza e della saggezza umana. Un terzo partito, quello che propende per la lettura allegorica, trova fuorviante tale diverbio botanico e ribatte: si tratta dell’etz chayim, dell’albero di vita ossia delle parole della Torà. È un bell’esempio dello stile di discussione tra i maestri. In questo testo troviamo una simile dissertazione sulle dieci piaghe inferte agli egiziani, che i sottili ragionamenti di R. Josè il Galileo, di R. Eli‘ezer e dello stesso R.’Aqivà moltiplicano a dismisura fino a raggiungere il numero di 250 piaghe. Il midrash è noto, perché è finito nell’Haggadà shel Pesach. Esagerazioni? Certamente, ma per amore del Cielo, e chi può dire quale sia ‘il limite del Cielo’ o chi può imporre all’onnipotenza divina di non esagerare? I saggi esagerano sapendo di esagerare, gli stolti esagerano senza saperlo.
Qualche versetto dopo i figli di Israele giungono con Mosè a Elim, dove trovarono dodici sorgenti di acqua dolce e settanta palme: “E si accamparono presso l’acqua”. Stavolta scena e numeri paiono più chiari da decifrare: la Torà assaporata a Mara si muove con il popolo e si incanala nelle dodici tribù e rifulge nei settanta anziani di Israele, dice la Mekhiltà. Ma possiamo anche pensare alle settanta palme come i settanta popoli, dissetati dalla stessa Torà che è anche lux gentium. Fine della spigolatura. All’edizione italiana Alberto Mello ha dato come titolo Tra cielo e terra. Commento all’Esodo. Tra cielo e terra c’è proprio il mare, ci sono le acque dolceamare della nostra comprensione (e incomprensione) della Torà, nelle quali non di meno occorre “tuffarsi con un salto” come fece Nachshon della tribù di Giuda. Il suo coraggio venne premiato, dice R. Tarfon, con il diritto ad avere come re Davide e la sua discendenza.

Massimo Giuliani, Università di Trento

(26 novembre 2020)