Controvento
Rita, la scienziata

Non mi è piaciuto il film su Rita Levi Montalcini messo in onda da Rai 1, che pure ha ricevuto critiche lusinghiere. Mi ha delusa vedere quella che Primo Levi definì “una fragile donna dal carattere di ferro e dal portamento di una principessa” trasformata in una lacrimosa crocerossina con cappotto informe e scarpe ortopediche, quella donna così attiva nel sociale banalizzata in una romanzata vicenda intimista, quella scienziata considerata un mito in tutto il mondo, raccontata sotto la lente di un buonismo dannunziano che non le apparteneva. Forse fa parte di quella ricostruzione populista della realtà contemporanea che ha trasformato la regina Elisabetta in una massaia stazzonata nell’ultima serie di “The Crown”, e di quella visione del mondo che appiattisce ogni cosa al livello degli spettatori dei giochi a quiz. Mi chiedo, a costo di passare per una femminista arrabbiata, se lo stesso taglio sarebbe stato dato a una biografia su Einstein o su qualsiasi altro Premio Nobel maschio. Rita non si volle mai sposare, né avere figli, perché era sposata con la scienza e suo figlio fu l’NGF. Era una donna riservata, rigida, a volte anche dura e la sua umanità non trapelava da una lacrimuccia nell’angolo dell’occhio, ma dall’impegno sociale che faceva parte della tradizione culturale ebraica di cui era figlia. Credeva nei giovani e soprattutto nelle donne, che incoraggiava allo studio (creò una Fondazione a Scandiano per l’assistenza professionale ai giovani e una per le donne africane con lo scopo di erogare borse di studio per farle studiare nel loro Paese, comprendendo anni in anticipo l’importanza di creare opportunità di ricerca e di lavoro nei Paesi sottosviluppati). Fondò a Roma, insieme a Pietro Calissano, il suo più stretto collaboratore, l’EBRI (European Brain Research Institute) con l’idea, allora – e forse tuttora – all’avanguardia, di aprire in Italia un centro di eccellenza non condizionato dalla politica e dalle baronie accademiche, con standard anglosassoni di meritocrazia e promozione dei giovani. Presidente della Fondazione di Sclerosi Multipla, Presidente della Treccani, Senatrice a vita, membro dell’Accademia Pontificia delle Scienze: una vita dedicata all’impegno intellettuale e scientifico, dove il privato aveva poco spazio, per sua consapevole scelta.
Ho conosciuto Rita personalmente. Era amica di famiglia, e venne alcune volte a casa dei miei genitori a Forte dei Marmi, e da me a Milano. Mi incoraggiò a fondare BrainCircleItalia, di cui fu fino alla morte la Presidente Onoraria e scrisse di suo pugno le lettere di invito ai più prestigiosi scienziati del mondo per il primo Brainforum che organizzammo insieme a Roma. Pietro Calissano, suo braccio destro per quarant’anni, e che lei volle presente alla cerimonia del Nobel e pubblicamente ringraziò, è uno dei miei più cari amici. La Rita che ho conosciuto non l’ho ritrovata nel melenso e scontato film che porta il suo nome. Non voglio dire che Rita non sarebbe stata capace dell’impegno umanitario verso una bambina che rischiava di diventare cieca, ma incentrare su quell’episodio la sua biografia, quella che migliaia di spettatori ricorderanno e forse l’unica fonte di informazione popolare su di lei, mi sembra estremamente riduttivo e indegno della sua memoria di scienziata e di protagonista della Storia scientifica, quella con la S maiuscola.
D’altronde nel film tutto è banale: i dialoghi, i personaggi unidimensionali ridotti a caricature di sé stessi, e persino le persecuzioni razziali, di cui Rita fu vittima e che si riducono alla tirata di un professore antisemita sulle caratteristiche somatiche degli ebrei. Le leggi razziste furono una tragedia, che ridusse migliaia di famiglie di gente perbene, di cittadini italiani che credevano nel loro Paese, alla cancellazione dei diritti civili, alla povertà, alla impossibilità di lavorare e frequentare le scuole e alla fine, per molti, ai campi di sterminio. Rita, che fu costretta a portare avanti la sua ricerca sugli embrioni nella cucina di casa, non amava parlarne, né voleva essere identificata per la sua religione e le sue origini famigliari: si considerava una scienziata e libera pensatrice, senza altre etichette. E così la vorrei ricordata, come una scienziata che fece una scoperta la cui portata ancora non si è esaurita – oggi si sta studiando la possibilità di una cura per l’Alzheimer con l’NGF e le applicazioni dei suoi studi hanno dato un impulso alla ricerca di anticorpi monoclonali per neutralizzare le cause di questa malattia, che fa ogni anno nel mondo quattro milioni e mezzo di malati, uno ogni sette secondi, destinati ad aumentare con l’invecchiamento della popolazione. Quarantasette milioni di persone affette da questa patologia, secondo i dati più recenti – altro che Covid…
Certo, come sottolinea la nipote Piera Levi Montalcini, che ha contribuito alla sceneggiatura, nel film non mancano i riferimenti ai principi che hanno guidato la vita di sua zia. La dedizione alla ricerca, soprattutto alla ricerca di base, che può essere noiosa, ripetitiva e non dare i risultati sperati, ma che contribuisce a creare i mattoni sui quali si fondano le grandi scoperte. Il non lasciarsi scoraggiare dagli insuccessi, e, quando qualcosa non funziona, non incaponirsi, ma riesaminare il processo per “tornare ai semplici”, come nel film spiega il suo maestro, Giuseppe Levi, figura straordinaria che “allevò” tre premi Nobel, oltre a Rita Salvador Luria e Renato Dulbecco. E la testarda determinazione di Rita a fare quello che sentiva giusto contro tutti e contro tutto, in particolar modo la burocrazia. Ma tutto questo viene annacquato e, secondo me, passa in secondo piano, rispetto alla facile emozione suscitata dalla vicenda. E mi chiedo perché, per glorificare una donna, ancor oggi, si ritenga necessario puntare sulle corde dell’emotività invece che sul rigore dell’impegno scientifico.

Viviana Kasam