La sfida della Memoria

Gentile rav Riccardo Di Segni, la ringrazio molto per l’attenzione che su queste pagine lei ha dedicato alla nostra Carta della Memoria. Comprendo bene lo spirito che anima le sue obiezioni. Noi non abbiamo però mai messo in dubbio l’enormità e la specificità della Shoah (un genocidio senza precedenti, come lo definisce Yehuda Bauer) né tantomeno mettere assieme, astoricamente, massacri, epidemie e un domani sofferenze personali. Tutto il lavoro di questi anni di Gariwo, e i miei scritti, stanno a testimoniarlo. Lei scrive che “è difficile (ma non impossibile) fare delle gradazioni delle sofferenze”. È proprio ciò che abbiamo sempre voluto che fosse evitato. La Memoria della Shoah, grazie al lavoro dell’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin, fu tematizzata con la Convenzione per la prevenzione dei genocidi delle Nazioni Unite, nel 1951. Da allora sono sorti tribunali internazionali e significative riflessioni sui diritti umani. Lemkin, che aveva perso nell’Olocausto 49 famigliari, prima della guerra si era già interessato al massacro del popolo armeno. Fu lui che coniò, nel 1944, il termine “genocidio”, che considerava un’offesa al diritto internazionale. Fra il 1945 e il 1946 Lemkin fu consulente del Procuratore capo Robert H. Jackson, nel Processo di Norimberga. Ma per lui, nonostante l’enormità dei crimini nazisti, dovevano esser chiamati “genocidi” anche altri massacri di popoli: nel 1953 qualificò come genocidiarie le politiche che Stalin condusse contro l’Ucraina negli anni Trenta e che culminarono nella grande carestia del 1933-34 (Holodomor che provocò 3,5 milioni di morti) e quelle della Turchia contro il popolo armeno (tra il 1915 e il 1916, circa 1,5 milioni di morti). Ci sembra che non si tratti, come lei scrive, di “repliche più o meno parziali di questo terribile modello”. Proprio perché queste “repliche”, come lei aggiunge, “sono numerose e il monito è quanto mai necessario”, il nostro impegno deve essere, come sostenne Primo Levi nell’ultimo capitolo de I sommersi e i salvati, di considerare la Shoah e gli altri genocidi, che ancora si stanno perpetuando, come ammonimento: se è successo potrà succedere ancora. Per questo, come anche Gariwo fa da anni, si tratta di discutere e lavorare anzitutto con gli insegnanti e gli studenti per studiare i genocidi e imparare a riconoscerne i segnali. Questo, mi creda, non è “sostenere una memoria unificata e indistinta delle sofferenze che ricorda tutto per non ricordare niente”. È proprio il contrario. Direi che proprio perché la Shoah è un genocidio paradigmatico che segna l’abisso del male estremo la sua memoria deve avere come scopo la prevenzione di ogni nuovo genocidio e crimine contro l’umanità nei confronti degli ebrei e dei non ebrei. Un monito quindi per l’umanità intera. Con molta stima.

Gabriele Nissim, presidente di Gariwo, la foresta dei giusti

(1 dicembre 2020)