Maradona, grazie
per le emozioni

Povero Maradona, condannato a scontare con l’odio degli insignificanti il proprio talento e la propria fama.
È bastato che morisse, in anticipo sui tempi – ma i tempi non li decidiamo noi –, e le menti più perspicaci, forse anche le più frustrate, si sono scatenate per denunciarne la depravazione e fustigarne i costumi.
Ci si ripropone l’antico dilemma: può un giudizio morale (mal applicato e a volte supponente) negare il valore dell’arte? Può l’arte universalmente riconosciuta soccombere, schiacciata da un’etica sociale anche non condivisa, un’etica che straborda nel moralismo più gretto e meschino?
Dopo neanche un’ora dalla notizia della sua morte, Diego Armando Maradona già veniva messo alla gogna, già gli si addebitava il peggio, in qualche caso anche solo sulla base di una foto. Quindi, frequentatore di camorristi, drogato impenitente, padre renitente e fuggitivo, amante infedele. E, come se la lista non bastasse, schifoso comunista, colpevole di ammirare Fidel e il Che.
La censura ama sguazzare nel fango, se la gode a portare in morbosa emersione il sordido (vero o falso non conta) dell’uomo privato, al solo scopo di distruggere l’uomo pubblico, l’artista. Perché Maradona è stato innegabilmente, nel suo mestiere, un artista, un talentuosissimo e impareggiabile genio del pallone. Anche chi non sia un patito dello sport e si accontenti di guardare di tanto in tanto un florilegio dei suoi dribbling e dei suoi gol non riesce a frenare l’entusiasmo e l’ammirazione. È impossibile disconoscere che Maradona ha segnato un’epoca, che ha dato a folle immense di appassionati e di diseredati, da una parte all’altra dell’Oceano, la gioia, l’entusiasmo e la passione che sono stati loro raro nutrimento. Maradona ha regalato emozioni a milioni di persone.
I miti turbano l’ingessamento del perbenismo quotidiano, specie quando a proporli è un amore di popolo.
Del mito pubblico insospettisce la possibile influenza nefasta, il rischio che la sua storia privata spinga i giovani all’imitazione. Ma il Maradona privato non si è mai proposto come modello agli altri. Ha scelto di vivere con l’acceleratore a tavoletta, dritto verso l’autodistruzione. Scelta discutibile, ma personale, che ha nuociuto, per lo più, solo a lui stesso.
Se i difetti dell’uomo dovessero annullare le acquisizioni e i meriti della sua arte dovremmo allora rivedere i nostri giudizi su Benvenuto Cellini, sul Caravaggio, su Paul Verlaine, su T.S. Eliot, su Pablo Neruda, su Louis-Ferdinand Céline, su più di uno scrittore della Beat Generation e, perché no?, sul tanto amato Pier Paolo Pasolini, e chissà su quanti altri grandi della storia dell’uomo. Dovremmo rivedere i nostri giudizi su molti premi Nobel della cui vita privata nulla sappiamo semplicemente perché mai ci è passato per la testa di indagarla, di spiarla morbosamente, così come mai abbiamo pensato di indagare la vita di mille calciatori, ciclisti, poeti, scienziati. Non lo abbiamo fatto per puro tornaconto, perché altrimenti avremmo dovuto ogni giorno rinunciare a esaltare mille vittorie locali e nazionali e avremmo dovuto rifiutare mille vaccini e infinite scoperte scientifiche. Avremmo dovuto strappare i quadri dalle pareti dei musei, stracciare le pagine di mille poesie e di mille romanzi, avremmo dovuto morire anzitempo di mille malattie. Maradona ha goduto della sventura della visibilità, perché la sua arte era inscindibile dalla sua persona fisica, e la sua persona fisica è stata confusa, dal mondo avido di pettegolezzo e maldicenza, con la sua vita e con la sua privacy. La disgrazia di Maradona è stata quella di vivere in un tempo in cui i risvolti anche più intimi della vita di un individuo vanno in pasto al mondo come mai era accaduto prima nella storia. E vita e arte si mescolano offensivamente prestandosi con pericolosa facilità al gioco al massacro in cui, grazie al privato, si mortifica e si degrada il pubblico.
Il motto ‘de mortuis nihil nisi bonum’ (‘Acharé Mot Kedoshim’, diremmo noi) può valere per le élite politiche e sociali, non vale per un figlio del popolo che, a forza di gambe e di calci, si è indebitamente sollevato dall’anonimato e dalla miseria. È stata forse anche la vicinanza del parvenu al mondo degli emarginati e dei diseredati a dare poco o tanto fastidio: le sue incursioni in partitelle di provincia con i disabili, la sua beneficenza nell’ombra a favore degli ultimi.
Si è assistito con disagio, in questi giorni, alla cattiveria della gente contro il vinto. Un vinto, prima, meritatamente esaltato e mitizzato, oggetto di amore e ammirazione sconfinati, poi, nella caduta, stigmatizzato, abbandonato, tradito, corroso fino alla consunzione estrema e all’odio. Uno spettacolo davvero pietoso.
I fan di allora si sono trasformati in giudici inappellabili a difesa del giusto, del vero e dell’assoluto morale, senza un briciolo di umanità, di comprensione di una storia, di una vita, senza aver visto nell’uomo, dopo lo sberleffo trionfante e ghignante della vittoria, quell’indimenticabile sguardo malinconico e vuoto del ragazzo consapevole di essere tornato il perdente di un tempo. Fra il giubilo dei vincitori sbraitanti, facili alla condanna.
Le masse ora adoranti e riverenti nell’addio al feretro non compensano la volgarità sbrigativa dei censori, dei rappresentanti del vero e del bene.
Povero Maradona, finalmente libero. Grazie per le emozioni.

Dario Calimani