La morte richiede pudore

Una delle cose che mi ha sempre attratto, nell’ebraismo, è il radicale rifiuto di ogni forma di idolatria. Il secondo Comandamento del Decalogo, com’è noto, non va inteso esclusivamente come divieto di venerare una pluralità di divinità, ma anche di eleggere esseri umani a livello divino, o semi-divino, attribuendo loro doti sovraumane. Nell’ebraismo non esistono i santi, come nel cattolicesimo, i patriarchi della storia di Israele (Giacobbe, i suoi figli, Mosè, Davide…) sono ricordati anche nelle loro cadute, nei loro errori, nelle loro colpe. Solo l’Onnipotente è santo, e la santità viene indicata agli uomini come un esempio, un invito alla “imitatio Dei”, una strada da perseguire (“kedoshìm tihiu ki anì kadòsh”, “siate santi perché io sono santo” [Lev. 19.2]): ma non può mai essere raggiunta appieno, perché gli uomini sono solo uomini. Nel Seder di Pesach il nome di Mosè, protagonista assoluto di quella storia di salvezza, non viene mai nominato, affinché nessuno possa credere che si celebra la grandezza di un uomo. Perché Mosè, anche lui, quantunque grande, era solo un uomo.
E, al di là dell’aspetto religioso, ho sempre considerato, in tutti i luoghi e tutti i tempi, il culto della personalità come un fenomeno regressivo, e non solo quando a esserne beneficiari siano i “cattivi” (gli Hitler, i Mussolini, gli Stalin…), ma anche quando vada a convergere su personaggi considerati, a torto o ragione, meritevoli di giudizi, in tutto o in parte, positivi. C’è una grande differenza, a mio avviso, tra ammirare un determinato individuo per i suoi talenti e le sue qualità, sullo specifico terreno in cui li ha manifestati, e farlo diventare un mito, un’icona da incensare e glorificare in tutto e per tutto.
È sulla base di queste premesse che esprimo delle riserve sul modo abnorme in cui, in tutto il mondo, si è manifestato il lutto per la morte di Maradona. Un fenomeno che ha avuto e ha qualcosa di eccessivo, stonato, fuori misura, non solo per la sua intensità ed estensione, ma anche per il significato attribuito alle gesta dello scomparso, che hanno trasbordato, dal campo meramente sportivo, a una dimensione totalizzate, assoluta, mistica e soteriologica. Il celebre calciatore non è stato rimpianto e commemorato – come era giusto e doveroso che avvenisse – come un grande campione dello sport più popolare del mondo, ma anche come un “salvatore degli oppressi”, il promotore del “riscatto di tutti i Sud del mondo”, colui che avrebbe vendicato, a suon di gol, i popoli derelitti (l’Argentina, il Venezuela, Napoli) dalle offese subite dai loro ricchi e prepotenti nemici (l’Inghilterra, gli Stati Uniti, Torino e Milano). Rispetto assolutamente i sentimenti di tutti coloro che si sono immedesimati nel “pibe de oro”, che sono stati conquistati e ammaliati dalla sua abilità agonistica, e che hanno manifestato cordoglio e dolore per la sua fine. E anch’io, pur non interessandomi granché di calcio, ho ammirato la bravura e la fantasia del calciatore, e mi sono rattristato per la sua prematura scomparsa. Ma perché farne un simbolo di vita, un modello, un idolo?
Non starò a ricordare i difetti umani dell’uomo, che ci sono indubbiamente stati, perché tutti gli uomini, chi più e chi meno, sono difettosi. E le fragilità di Diego, poi, sono state meno gravi di quelle di tanti altri. Quel che non mi convince è che la grandezza del calciatore sia stata automaticamente trasformata in grandezza di un uomo, che i suoi difetti siano stati trasfigurati in eccelse virtù, in quanto appartenenti a un uomo al di sopra del comune (“è stato il migliore – recitava un titolo di giornale – perché è stato il peggiore”). Una luminosità tanto eccelsa da raggiungere – come più volte è stato detto, e non solo in senso metaforico, o scherzoso – vette divine. Davanti alle edicole votive di Diego ci si ferma in raccoglimento, si piange, si prega. E, immagino, non per lui: i superuomini non hanno bisogno delle nostre preghiere.
Io credo che la morte di un uomo, di qualsiasi uomo, richieda soprattutto pudore, rispetto, silenzio. Ho sempre detestato gli applausi ai funerali, in segno di ammirazione per i meriti dello scomparso. Gli applausi vanno tributati in vita, la morte non è uno spettacolo. Il fragore, il chiasso non si addicono a quel misterioso momento in cui tutti noi, prima o poi, piccoli e grandi, facciamo ingresso nel mondo delle ombre. Il momento in cui quella che Manzoni definì “la falce che pareggia tutta l’erba” ci rende tutti uguali.
È vero, probabilmente, che il nome di Diego, come quello di Eurialo e Niso, resterà inciso per sempre nel “memor aevum”. E non mi stupirei, né mi scandalizzerei, se, tra qualche tempo, fosse promossa per lui una causa di beatificazione. Già si parla di sue apparizioni celesti e, comunque, avere fatto piangere tante persone, in tutto il mondo – di ogni condizione sociale e intellettuale e di ogni orientamento politico e ideologico –, è già, indubbiamente, una forma di miracolo. Si dica pure, se si crede, che è morto un santo. Ma non un dio, o un semi-dio. E non perché si offenda, in tale modo, il Signore – concetto in cui non credo -, ma perché così si nega la peculiarità della natura umana, che resta murata nei precisi confini dell’umanità, ossia del limite, della finitezza, dell’evanescenza di fronte al fiume del tempo, all’infinito.
L’uomo, ogni uomo, è solo un uomo, e tale, sempre, dovrebbe restare.

Francesco Lucrezi

(2 dicembre 2020)