Dal deserto al giardino

La generazione del deserto di Lia Tagliacozzo è uno di quei libri non solo belli in sé ma che arrivano al momento giusto. Bello per come è scritto e per come è costruito, con le storie della sua famiglia dalle leggi razziali alla Shoah sapientemente alternate alla storia del dopo, dei silenzi e della faticosa ricostruzione del passato. Arrivato per me al momento giusto perché anche io appartengo alla generazione silenziosa e poco ascoltata a cui l’autrice si ripromette di dare voce (“Siamo una generazione di nati nel viaggio, siamo clandestini alla vita, sospesi a metà, nati dopo la schiavitù e prima della libertà. Ma la vita la stiamo vivendo e avremo qualcosa da dire”) e dunque accolgo queste sue parole introduttive con un senso di sollievo.
Le vicende che Lia racconta e ricostruisce, e anche il modo in cui le ricostruisce, pezzo per pezzo, tra silenzi e improvvise rivelazioni, sono terribili, da starci male e non dormirci la notte. In effetti molto diverse da quelle della mia famiglia, così come ben diversa, se non opposta, è stata la trasmissione della memoria: io sono cresciuta tra racconti che mi facevo ripetere continuamente e non mi stancavo mai di ascoltare, di nascondigli, fughe, pericoli, difficoltà, ma anche fortunate coincidenze, aiuti insperati, come in una fiaba a lieto fine. Lieto fine fino a un certo punto, s’intende, come peraltro accade in tutte le fiabe.
Quando arrivo a leggere della parte materna della famiglia dell’autrice le differenze si fanno meno marcate, e proprio per questo le domande incalzanti che Lia si pone e ci pone (per esempio, come ci si sente a chiudere la propria casa senza sapere se e quando si tornerà?) non possono fare a meno di intaccare anche la mia fiaba. Perché un conto è ascoltarla sapendo già il finale, tutt’altra cosa è viverla senza conoscerne il seguito. Non che razionalmente io non lo sapessi, ma forse ci voleva quel fuoco di fila di domande implacabili perché la consapevolezza arrivasse a bruciarmi davvero. Per questo – appunto – forse il libro è arrivato per me proprio nel momento giusto. E infatti mi ritrovo a parlarne con chiunque mi capiti a tiro.
Ne parlo anche con mio padre – il bambino protagonista della fiaba – durante una passeggiata nella prima domenica arancione, quando finalmente abbiamo potuto cambiare parco e raggiungere la via dedicata al partigiano ebreo torinese Emanuele Artom. Spinta dalla suggestione del libro mi ritrovo anche io a cercare di colmare i vuoti, ricostruire date e spostamenti, seguire una linea ferroviaria bombardata e interrotta che porta dalla provincia di Cuneo alla Svizzera. Scopro una cosa che non sapevo, o forse non ricordavo: una notte di passaggio trascorsa in una clinica a Torino con la complicità delle suore. Arrivo a una ricostruzione dei fatti forse un po’ più prosaica rispetto ai miei ricordi d’infanzia, ma in fin dei conti attraversare il deserto significa appunto passare dal Mar Rosso e dalla manna alle difficoltà e responsabilità della vita di tutti i giorni.
Intanto la nostra passeggiata ci porta per caso proprio in mezzo ai 36 alberi piantati alcuni anni fa in onore dei Giusti del Piemonte. Era un po’ che non ci passavo e scopro con piacere che gli alberi sono cresciuti. Il luogo perfetto in cui concludere una vicenda che si snoda da un Giusto all’altro (e d’ora in poi a quelli già noti posso aggiungere le suore che ho appena scoperto). E per quanto sia angosciante il pensiero di cosa sia stata la Shoah, il ricordo dei Giusti lo rende un po’ meno insopportabile.

Anna Segre