La responsabilità di alzare la voce

L’elogio riconosciuto a Noè nel Tanakh non ha pari. Stando a quanto scritto nella Torah lui era un “uomo giusto e integro, tra i suoi contemporanei: Noè camminava con Dio”. A nessun altro profeta, neanche ad Abramo o a Mosè, è riservato un elogio tale. L’unica persona la cui descrizione si avvicina nella Bibbia è Giobbe: “Uomo integro e retto (tam ve-yashar), timorato di Dio e alieno dal male” (Giobbe 1:1). Effettivamente Noè è l’unico individuo descritto nel Tanakh come giusto (tzaddik).
Eppure, il Noè che vediamo alla fine della sua esistenza non è la stessa persona che abbiamo incontrato all’inizio. Dopo il Diluvio universale:
Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda. Cam, padre di Canaan, vide la nudità di suo padre e raccontò la cosa ai due fratelli che stavano fuori. Allora Sem e Iafet presero il mantello, se lo misero tutti e due sulle spalle e, camminando a ritroso, coprirono la nudità del loro padre; avendo tenuto la faccia rivolta indietro, non videro la nudità del loro padre. (Gen. 9:20-23)
L’uomo di Dio è diventato l’uomo della terra. L’uomo retto è diventato un bevitore abituale. L’uomo vestito di virtù ora giace svestito. L’uomo che ha salvato la sua famiglia dal Diluvio ora è in condizioni così indecorose che due dei suoi figli si vergognano a guardarlo. È il racconto di un declino, perché? Noè rappresenta il classico caso di colui che è giusto, ma non è un leader. In un’epoca disastrosa, quando tutto è stato corrotto, quando il mondo è colmo di violenza, quando (nella riga più toccante di tutta la Torah) persino Dio stesso “si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo”; Noè da solo giustifica la fede di Dio nell’umanità, la fede che in primo luogo Lo portò a creare il genere umano. Si tratta di una conquista immensa e nulla dovrebbe sminuirla. Dopotutto Noè è l’uomo attraverso il quale Dio ha stretto un’alleanza con l’umanità intera. Noè è per l’umanità ciò che Abramo è per il popolo ebraico.
Noè era un brav’uomo in tempi spiacevoli. Tuttavia, la sua influenza sulla vita dei suoi contemporanei, a quanto pare, era inesistente. Questo è implicito nelle parole di Dio: “Ho visto che di tutta questa generazione tu solo sei giusto” (Gen. 7:1); e anche per il fatto che solo Noè e la sua famiglia, insieme agli animali, furono salvati. È ragionevole supporre che questi due aspetti, ovvero la rettitudine di Noè e la sua mancata influenza sui suoi contemporanei, siano strettamente collegati. Noè ha salvaguardato la sua virtù prendendo le distanze dal contesto sociale. È solo così che riesce a rimanere sano in un mondo impazzito.
Il famoso dibattito tra i Saggi che si domandano se l’espressione “perfetto tra i suoi contemporanei” (Gen. 6:9) sia un elogio o una critica potrebbe ben essere connesso a ciò. Alcuni hanno ritenuto che “perfetto tra i suoi contemporanei” significasse perfetto solo rispetto al basso standard dell’epoca e che, se fosse vissuto all’epoca di Abramo, non sarebbe stato un uomo di rilievo. Altri però hanno affermato l’opposto: se in una generazione malvagia è riuscito ad essere giusto, possiamo immaginare quanto più grande sarebbe stato in una generazione con modelli da seguire come Abramo. A me pare che il dibattito si focalizzi sul chiedersi se l’isolamento di Noè fosse dovuto al suo carattere, o se fosse semplicemente la strategia necessaria in quel tempo e in quel luogo. Se fosse stato un solitario per natura, non avrebbe guadagnato nulla dalla presenza di eroi come Abramo. Sarebbe rimasto indifferente all’influenza, sia nel bene che nel male. Se non fosse stato un solitario per natura ma unicamente per le circostanze, in un’altra epoca avrebbe ricercato spiriti affini e sarebbe diventato ancora più grande.
Ma allora cosa doveva fare esattamente Noè? Come sarebbe potuto essere un’influenza positiva in una società incline al male? Doveva davvero parlare in un’epoca in cui nessuno avrebbe ascoltato? A volte le persone non ascoltano nemmeno la voce di Dio stesso. Ne abbiamo un esempio solo due capitoli prima, quando Dio avverte Caino del pericolo dei suoi sentimenti violenti verso Abele: “Perché sei irritato e perché sei abbattuto? […] il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo” (Gen. 4: 6-7). Tuttavia Caino non ascoltò e uccise suo fratello. Se Dio parla e le persone non ascoltano, come possiamo criticare Noè per non aver parlato, considerato che tutti gli indizi confermano che comunque nessuno lo avrebbe ascoltato? Il Talmud solleva proprio questa questione in un contesto diverso, in un’altra epoca senza regole, gli anni che portarono alla conquista babilonese e alla distruzione del Primo Tempio di Gerusalemme: Aha b. R. Hanina disse: Mai una parola positiva uscì dalla bocca del Santo, sia benedetto, di cui si ritrasse per il male, eccetto dove è scritto “Il Signore gli disse: ‘Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e fa’ un segno sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono’” (Ez. 9:4).
Il Santo, sia benedetto, disse a Gabriele: “Va’ e metti un segno di inchiostro sulla fronte dei giusti, affinché gli angeli distruttori non abbiano potere su di loro; e un segno di sangue sulla fronte dei malvagi, affinché gli angeli distruttori possano avere potere su di loro”. Disse l’Attributo della Giustizia davanti al Santo, benedetto Egli sia: “Sovrano dell’universo! In che modo sono diversi da quelli?”. “Quelli sono uomini completamente giusti, mentre questi sono completamente malvagi”, rispose. “Sovrano dell’universo!”, disse la Giustizia, “avevano il potere di protestare ma non l’hanno fatto”. Disse Dio: “Se avessero protestato, non avrebbero dato loro ascolto”. “Sovrano dell’universo!” disse la Giustizia: “Questo Ti è stato rivelato, ma è stato rivelato a loro?” (Shabbat 55a).
Secondo questo passo, anche i giusti di Gerusalemme furono puniti al momento della distruzione del Tempio perché non protestarono contro le azioni dei loro contemporanei. Dio si oppone all’affermazione della Giustizia: perché punirli per la loro mancata protesta se era chiaro che, anche se avessero protestato, nessuno avrebbe ascoltato? La Giustizia risponde: Questo potrebbe essere evidente a te o agli angeli nel senso che questo potrebbe essere evidente col senno di poi ma al tempo nessun essere umano avrebbe potuto essere sicuro che le sue parole non avrebbero avuto alcun impatto. La Giustizia chiede: come puoi essere sicuro che fallirai se non ci provi mai?
Il Talmud riporta che Dio, anche se riluttante, era d’accordo con la Giustizia. Da qui il forte principio: quando nella società si verificano eventi spiacevoli, quando prevalgono la corruzione, la violenza e l’ingiustizia, è nostro dovere protestare, anche se sembra probabile che essa non avrà alcun effetto. Perché? Perché è ciò che richiede l’integrità morale. Il silenzio può essere considerato come un’accettazione. E oltre a ciò, non possiamo mai essere sicuri che nessuno ascolterà. La moralità prevede che noi ignoriamo la probabilità e ci concentriamo sulla possibilità. Forse qualcuno se ne renderà conto e muterà la propria condotta. E ciò “forse” è sufficiente.
Questa idea non è apparsa improvvisamente per la prima volta nel Talmud. È affermata esplicitamente nel libro di Ezechiele. Questo è ciò che Dio dice al Profeta: “Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a nazioni ribelli che si sono ribellate contro di Me; essi e i loro padri si sono rivoltati contro di Me fino a questo giorno. Quelli ai quali ti mando sono figli dalla faccia dura e dal cuore ostinato, e tu dirai loro: “Così dice il Signore, l’Eterno”. Sia che ascoltino o rifiutino di ascoltare, perché sono una casa ribelle, sapranno tuttavia che c’è un profeta in mezzo a loro”. (Ez. 2:3-5)
Dio sta dicendo al Profeta di parlare, indipendentemente dal fatto che le persone ascolteranno. Quindi la storia di Noè può essere letta come un esempio di mancanza di leadership. Noè era un uomo giusto ma non un leader. Era un brav’uomo che non aveva alcuna influenza sull’ambiente circostante. Ci sono, di certo, altri modi di leggere la storia, ma questo mi sembra il più evidente. Se è così, allora Noè è il terzo caso di una serie di fallimenti di responsabilità. Come abbiamo visto in precedenza, Adamo ed Eva non hanno assunto la responsabilità personale delle proprie azioni (“Non sono stato io”). Caino ha rifiutato di assumersi la responsabilità morale (“Sono forse il custode di mio fratello?”). Noè ha fallito la prova della responsabilità collettiva. Questo modo di interpretare la storia, se corretto, implica una conclusione forte. Sappiamo che l’ebraismo prevede la responsabilità collettiva, poiché insegna Kol Yisrael arevim ze bazeh (“Tutti gli Israeliti sono responsabili l’uno dell’altro” Shavuot 39a). Ma può darsi che anche il semplice fatto di essere umani implichi una responsabilità collettiva. Non solo gli ebrei sono responsabili l’uno dell’altro. Così siamo tutti, indipendentemente dalla nostra fede o appartenenza. Quindi in ogni caso, sosteneva Maimonide, anche se Nahmanide non era d’accordo. Gli Hassidim avevano un modo semplice per sottolineare questo punto. Loro chiamavano Noè un tzaddik im peltz (un uomo giusto con una pelliccia). Esistono essenzialmente due modi per riscaldarsi in una notte fredda. Puoi indossare una folta pelliccia o accendere un fuoco. Indossa un cappotto e riscalderai solo te stesso. Accendi un fuoco e potrai riscaldare anche gli altri. Dobbiamo accendere un fuoco. Noè era un brav’uomo, ma non un leader. Dopo il Diluvio, fu perseguitato dalla colpa? Ha pensato alle vite che avrebbe potuto salvare se solo avesse fatto sentire la sua voce ai suoi contemporanei o a Dio? Non possiamo esserne sicuri. Il testo è suggestivo ma non risolutivo. Sembra tuttavia che la Torah stabilisca uno standard elevato per la vita morale. Non basta essere giusti se questo significa voltare le spalle a una società colpevole di misfatti. Dobbiamo prendere posizione, protestare e manifestare il nostro dissenso nonostante la scarsa probabilità di cambiare l’idea altrui. Questo perché la vita morale è una vita che condividiamo con gli altri. In un certo senso siamo responsabili della società di cui siamo parte. Non basta comportarsi bene. Dobbiamo incoraggiare gli altri a farlo. Ci sono momenti in cui ognuno di noi deve essere una guida.

Rav Jonathan Sacks

(Traduzione di Antonella Losavio, studentessa della Scuola Superiore Interpreti e Traduttori dell’Università di Trieste, tirocinante presso la redazione giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane)