Senza giustizia,
l’amore non ci salva
La Parashah di Ki Tetze contiene più leggi di ogni altra. Alcune di queste hanno dato vita a molti studi e dibattiti, soprattutto due che si trovano all’inizio: la legge della donna prigioniera di guerra e quella del “figlio testardo e ribelle”. Tuttavia, è presente una legge che merita molta più attenzione di quanta non ne riceva solitamente, ossia quella che si trova tra le due appena menzionate. La legge in questione riguarda l’eredità:
Se un uomo ha due mogli, e ama una ma non l’altra, entrambe gli partoriscono figli ma il primogenito è figlio di colei che non ama, quando fa testamento non può accordare i diritti di primogenito al figlio della donna che ama togliendoli al vero primogenito, figlio della donna che non ama. Deve riconoscere come primogenito il figlio della moglie che non ama, lasciandogli in eredità una parte doppia dei suoi averi. Quel figlio è il primo segno della forza di suo padre e a lui spetta/appartiene il diritto di primogenito. (Deut. 21:1517) Si noti che la parola in ebraico qui tradotta con “che non ama” è senuah, che di solito significa “che odia”. Più avanti vedremo perché viene utilizzata una parola tanto forte.
A prima vista parrebbe una legge chiara e logica, secondo cui l’amore non deve prevalere sulla giustizia. Il primogenito, nell’antica Israele come altrove, godeva di particolari diritti, specialmente quando si trattava di eredità. Nella maggior parte delle società, il primogenito tendeva a succedere al padre. Ciò accadeva in Israele per re e sacerdoti. Il primogenito non ereditava l’intero patrimonio del padre, ma comunque ereditava una parte doppia rispetto agli altri figli. Avere regole come questa era importante per evitare pericolose divisioni familiari ogni volta che moriva o stava per morire qualcuno. La Torah ci fornisce una rappresentazione grafica degli intrighi di corte che ebbero luogo mentre Davide era sul letto di morte per determinare chi dei suoi figli dovesse diventare il suo erede. In tempi più recenti ci sono stati diversi esempi di dinastie chassidiche irrimediabilmente divise perché gruppi diversi volevano che individui diversi ereditassero il ruolo guida. Esiste una tensione tra la libertà individuale e il bene comune.
La libertà individuale dice: “Questa ricchezza è mia. Devo poterla gestire come voglio, e poter decidere a chi lasciarla in eredità.”
Ma esiste anche il benessere degli altri, degli altri bambini, degli altri membri della famiglia, e della comunità e della società che vengono danneggiate da liti familiari. Qui la Torah pone un limite, riconoscendo i diritti del primogenito biologico e limitando i diritti del padre. La legge in quanto tale è chiara. Ciò che è degno di nota è che sembri rivolta contro una figura biblica specifica: Giacobbe. Uno dei legami è di natura linguistica. I termini chiave della nostra legge sono una contrapposizione tra ahuvah, “amato”, e senuah “odiato/non amato”. Questa contrapposizione ricorre dieci volte nella Torah.
Tre volte ha a che fare con la relazione tra noi e Dio: “Coloro che Mi odiano e coloro che Mi amano”. Restano altre sette occorrenze. Quattro si trovano nel paragrafo sopra. Le altre tre riguardano tutte Giacobbe: due sono relative al suo amore per Rachele, che preferisce a Lea (Genesi 29:30-31, 3233), la terza al suo amore per Giuseppe che preferisce agli altri figli Genesi 37:4). Entrambe le preferenze causarono un grande dolore nella famiglia ed ebbero conseguenze disastrose nel lungo termine. Ecco come la Torah descrive i sentimenti di Giacobbe per Rachele: Giacobbe amava Rachele e disse: “Ti servirò (Laban) settant’anni per avere Rachele tua figlia minore”… Quindi Giacobbe servì Rachele per settant’anni, ma a lui sembrarono solo pochi giorni, perché la amava… E inoltre Giacobbe convisse con Rachele; infatti, amava Rachele più di Lea. E lo servì (Laban) per altri sette anni. (Genesi 29:18-30) La seguente è la descrizione delle conseguenze che questo ebbe su Lea: Quando il Signore vide che Lea era odiata, le permise di concepire, ma Rachele rimase sterile. Lea rimase incinta e partorì un figlio, e lo chiamò Reuben, poiché disse: “Significa: ‘il Signore ha visto la mia sofferenza’; significa anche: ‘Ora mio marito mi amerà’”. Rimase nuovamente incinta e partorì e disse: “È accaduto perché il Signore ha sentito che ero odiata e quindi mi ha dato anche questo”, quindi lo chiamò Simeone. (Gen. 29:31-33)
Ho tradotto la parola senuah con “odiata” semplicemente per trasmettere il senso di shock presente nel testo in ebraico. Comprendiamo anche noi perché venga utilizzata questa parola.
Come dice il testo, Lea era amata meno di Rachele. Giacobbe non la odiava, ma lei si sentiva odiata poiché amata di meno, dunque non amata. Questo sentimento dominava il suo matrimonio, come vediamo dai nomi che diede ai suoi primi figli. La rivalità persiste e si accentua nella generazione successiva.
Quando i suoi fratelli videro che il padre amava lui (Giuseppe) più di tutti i suoi fratelli, lo odiarono e non potevano rivolgergli parole di pace. (Genesi 37:4) Amati di meno, i fratelli si sentivano odiati, e quindi odiavano Giuseppe, che era il più amato. L’amore genera conflitto, anche se nessuna delle parti lo vuole. Giacobbe non odiava Lea o i suoi figli o i figli delle ancelle. Non decise deliberatamente di amare Rachele e Giuseppe in seguito. L’amore non funziona così. Ci succede, e di solito non è una nostra scelta. Tuttavia, chi è esterno alla relazione può sentirsi escluso e non amato. Che è come sentirsi odiati. La Torah usa la parola senuah per farci capire quanto è intenso il sentimento. Dire “Amo anche te” non basta, quando ogni azione, ogni parola, ogni sguardo dice “Amo qualcun altro di più”. E quindi arriviamo all’eredità. Giuseppe era l’undicesimo dei dodici figli di Giacobbe, ma il primogenito dell’amata Rachele. Giacobbe fece quello che la nostra Parashah ci dice di non fare. Privò Ruben, primogenito suo e di Lea, del diritto di nascita, la doppia parte, e la diede invece a Giuseppe. A Giuseppe disse: Ora, i tuoi due figli, che ti furono dati nella terra d’Egitto prima che io venissi da te in Egitto, saranno miei; Efraim e Manasse saranno miei non meno di Ruben e Simeone. (Gen. 48:5) Più avanti nello stesso capitolo, dice: “Io sto per morire; ma Dio sarà con voi e vi riporterà alla terra dei vostri padri. E adesso, ti cedo una parte in più rispetto ai tuoi fratelli, che ho strappato agli Amorrei con la mia spada e il mio arco” (Gen. 48:21-22).
Ci sono molte interpretazioni di questo versetto, ma secondo Rashi “questo si riferisce al diritto di nascita, per cui i figli di Giuseppe avrebbero dovuto ricevere due parti quando Canaan fosse stata divisa tra le tribù”.
Gli altri figli di Giacobbe avrebbero ricevuto una parte, mentre Giuseppe ne avrebbe ricevute due, una per ognuno dei suoi figli, Efraim e Manasse. È contro questa pratica che la legge nella nostra Parashah è diretta. Ecco la cosa straordinaria. Giacobbe/Israele è il padre del nostro popolo; ma in questo caso in particolare la sua condotta non deve essere presa come un precedente. Agire come lui ci è negato.
La Torah non ci dice che Giacobbe ha sbagliato. Ci sono moltissime spiegazioni che riconciliano il suo comportamento con le leggi arrivate più tardi. Giacobbe non osservava la Torah se non nella terra di Israele (Ramban), e il suo dono della doppia parte a Giuseppe fu concesso in Egitto. Non possiamo trasferire il diritto di primogenitura per sole ragioni d’amore, ma possiamo farlo se crediamo che il primogenito abbia gravi mancanze di carattere, cosa che Giacobbe riteneva vera per quanto riguardava Ruben (Gen. 49:3-4; Abarbanel).
Ma la legge ci dice qualcosa di davvero molto profondo. L’amore è il più alto dei sentimenti. Ci viene ordinato di amare Dio con tutto il nostro cuore, la nostra anima e la nostra forza. Ma, in contesti familiari, è anche carico di pericoli. L’amore rovinò la vita di Giacobbe più volte: nella sua relazione con Esaù (Isacco amava Esaù, Rebecca amava Giacobbe), nel rapporto tra Lea e Rachele, e in quello tra Giuseppe e i suoi fratelli. L’amore porta gioia; porta anche lacrime. Porta vicino alcune persone, ma ne fa sentire altre distanti e rifiutate. Perciò la Torah in questo caso ci dice: quando l’amore può essere causa di conflitto deve stare in secondo piano rispetto alla giustizia. L’amore è parziale, la giustizia è imparziale. L’amore è per qualcuno in particolare; la giusti
zia è per chiunque. L’amore porta soddisfazione personale; la giustizia porta ordine sociale. L’ebraismo è il tentativo più efficace nella storia di offrire il giusto equilibrio tra il particolare e l’universale. È entrambi. Venera il Dio universale attraverso una fede particolare. Crede in una connessione universale tra Dio e l’umanità – siamo tutti creati a immagine di Dio (Gen. 1:27) – e a una particolare – “Mio figlio, il Mio primogenito, Israele” (Esodo 4:22). Crede in un’alleanza universale con Noè, e
in una particolare con Abramo e più tardi con gli israeliti. Infine, crede nell’universalità della giustizia e nella particolarità dell’amore, e nell’importanza di entrambi.
Per quanto riguarda la relazione tra gli esseri umani c’è un ordine di priorità: prima crea la giustizia, poi esprimi l’amore. Perché se lasciamo che queste priorità siano rovesciate, dando spazio all’ingiustizia in nome dell’amore, divideremo e distruggeremo famiglie e comunità e ne soffriremo le conseguenze per molto tempo.
Una legge apparentemente marginale sull’eredità è di fatto un’importantissima dichiarazione dei valori ebraici. Credo che l’ebraismo abbia fatto la cosa giusta mettendo l’amore al cuore della vita religiosa – amore per Dio, per il vicino e per l’estraneo – ma riconoscendo allo stesso tempo che senza la giustizia, l’amore non ci salverà. Potrebbe addirittura distruggerci.
Rav Jonathan Sacks
(Traduzione di Sara Facelli e Rachele Ferin, studentesse della Scuola Superiore Interpreti e Traduttori dell’Università di Trieste, tirocinanti presso la redazione giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane)