Identità ebraica
e rapporto con l’altro

Ricorrenza nazionale prima che religiosa, ogni anno Chanukkah rinnova la centralità del suo messaggio di identificazione ebraica di fronte al mondo non ebraico e ci fornisce l’occasione di riflettere sulla nostra condizione di ebrei diasporici, costantemente in bilico tra due realtà per noi essenziali: le radici e la visione del mondo ebraiche da un lato, la partecipazione costruttiva alla più larga società civile dall’altro. Mi pare un fatto significativo che la festa, oltre a spingerci attraverso la vicenda di cui narra ad aderire attivamente a un modello di vita ebraico difendendo la nostra condizione da ogni tentativo di emarginazione/oppressione, ci induca a porre a noi stessi domande difficili ma decisive su chi siamo e su cosa vogliamo davvero essere nella nostra esistenza di ebrei italiani oggi, cioè di piccola radicata minoranza accanto a una collettività cattolica o agnostica.
La condivisione di una identità molteplice (ebrei consapevoli, italiani ed europei partecipi) è una realtà certo arricchente, ma anche di difficile equilibrio, soggetta nella diaspora al facile rischio di smarrire progressivamente la componente ebraica, spesso portata a essere nascosta o travolta dalla emergente dimensione locale inevitabilmente “altra” rispetto ai valori ebraici e al modello ebraico di esistenza. Ma, paradossalmente, proprio questo pericolo di “eclissi” delle nostre radici, questa possibilità di deriva capace se assecondata di allontanarci anche stabilmente dalla nostra originaria identità sull’onda di scelte legate a compagni e modelli di vita può divenire il perno di una ritrovata consapevolezza, di una differenziazione in grado di individuare e vivere i caratteri della nostra “diversità”, con consapevolezza e orgoglio addirittura maggiori in mezzo agli ostacoli della diaspora che non all’interno della “normalità” ebraica di Eretz Israel.
D’altro lato, esiste anche il pericolo di una “chiusura ermetica” nella nostra dimensione ebraica. Isolarsi, serrare la porta a contatti, scambi, aperture con ciò che ebraico non è ma che inevitabilmente fa parte del mondo in cui siamo immersi significa allontanarsi da quella cultura occidentale di cui rappresentiamo proprio in quanto ebrei un settore certo minoritario ma centrale e che dunque ci appartiene. Seguire questo modello sarebbe, in definitiva, una perdita secca: per la società che non godrebbe più del vivo apporto ebraico al suo sviluppo, per l’ebraismo nel suo complesso e per noi singoli ebrei, che ci vedremmo depauperati di una parte forse non ebraica ma irrinunciabile di noi stessi. Per fortuna il modello ebraico italiano, in cui ci riconosciamo e di cui siamo eredi, per secoli non è mai venuto meno a una simbiosi produttiva forse unica nel panorama ebraico mondiale.
La risposta alla complessa sfida lanciata ogni giorno dal mondo attuale al nostro essere ebrei della diaspora risiede forse nell’equilibrio, nel controllo dei propri orizzonti. Occorre mantenere come primo elemento di fondo la consapevolezza partecipe della nostra identità e delle nostre tradizioni; occorre entrare nella realtà “altra” e universale che ci sta a cuore, ma “darsi” ad essa senza smarrire se stessi, vivere in stretto e caldo legame sociale con la dimensione non ebraica che ci circonda senza perdere di vista i nostri punti fermi.
Da questa analisi deriva forse la conseguenza che la condizione ebraica più ricca e completa è – se opportunamente salvaguardata – la nostra, quella mista e “spuria” della diaspora, volta a convivere con l’altro senza perdere se stessi? E ancor più quella italiana, così minoritaria e così legata al mondo circostante? Difficile dirlo. Forse no, forse questa è solo la situazione in cui molti di noi si trovano più a loro agio e hanno minori difficoltà a realizzare se stessi, non necessariamente la più ebraicamente completa, che richiederebbe invece una ben maggiore dimensione di studio e di approfondimento.
È in ogni caso importante porsi il problema, mettere in gioco il proprio ebraismo, cercare le proprie risposte. Ed è importante, credo, che la domanda resti continuamente aperta.

David Sorani

(8 dicembre 2020)