La strada impervia
dell’incomprensione

Indro Montanelli diceva che gli accademici italiani scrivono per gli altri accademici, il che implicherebbe che i terzi, tutti gli altri, non ne traggano giovamento. Questa critica potrebbe rivelarsi non impeccabile, in quanto soltanto chi è padrone della materia può valutare gli argomenti altrui, quindi sono altri gli aspetti da considerare.
L’esclusività accademica si rivela sovente attraverso il microlinguaggio. Si definisce microlingua “la varietà di lingua che gli specialisti di un dato settore scientifico o professionale usano con un duplice scopo: 1. ottenere il massimo di chiarezza (ad esempio, sostituendo la parola con il termine; riducendo l’uso dei pronomi e della subordinazione, che possono creare ambiguità; preferendo le costruzioni passive, che mettono prima il tema, ciò di cui si parla, e poi il rema, ciò che si predica); 2. permettere a chi la usa appropriatamente di essere identificato come membro del gruppo scientifico-professionale che condivide una microlingua e quindi uno stile “(Elena Ballarin).
Possiamo ipotizzare che, spesso, la seconda accezione prenda il sopravvento rispetto alla prima, retrocedendo, nell’uso, a status symbol, lasciando in piedi soltanto un vuoto medagliere.
Negli studi giuridico – comparatistici, ad esempio, certi termini (“formante”) malgrado la loro utilità, non di rado sostituiscono le conclusioni con delle notazioni meramente culturali, se non addirittura stilistiche. Qualche storico di professione, ormai deceduto da anni, sminuì gli studi storici sugli ebrei di Giorgio Israel, perché storico della matematica, malgrado il loro valore. Così facendo, si finisce per smarrire l’insegnamento di Marc Bloch, e segnatamente lo spirito critico, l’interculturalità, il versante economico e l’apporto della psicologia. L’Italia risente ancora dello spirito corporativo, resuscitato dal fascismo, che si estrinseca nell’impermeabilità fra le diverse discipline, così contribuendo al declino del Paese ed alla sua deriva provinciale. Marc Bloch scriveva che “nulla è più curioso che vedere una menzogna prendere come punto di partenza un errore spontaneo” (Riflessioni di uno storico sulle false notizie di guerra) e, sempre su questa falsariga, in Apologia della storia o mestiere di storico, costui dedica uno spazio importante alla lotta alla menzogna ed al errore, termini i quali non appartengono di certo ad alcun microlinguaggio.
La mia non è una critica al costume, bensì alle “entraves” di una sottocultura che impedisce di approdare a conclusioni concrete, rimanendo sempre in un limbo indifferenziato, retrocedendo ad uno stile domestico ed approssimativo, che poi si estrinseca nella diffusione di errori gravi e di informazioni parziali. È inutile, ad esempio, diffondersi nell’interesse dimostrato dalla società per l’ebraismo, se poi non ci si domanda il perché, oppure valutare determinate opere senza prendersi la briga di accedere alla documentazione precedente.
Quali sono le ragioni di questo approccio? Possono essere le più varie, fra le quali il desiderio di non creare attriti che possano ostacolare l’accesso a benefici vari, la ricerca di una rendita di posizione, il fanatismo ideologico. Soprattutto, la disabitudine ad un esercizio critico della mente, che è, poi, una delle caratteristiche principali del pensiero ebraico e dei traguardi da esso raggiunti.

Emanuele Calò, giurista

(8 dicembre 2020)