Ascoltare, testimoniare, accogliere:
la lezione di un grande leader

Ricorre in queste ore il trentesimo giorno dalla scomparsa di Renzo Gattegna, dal 2006 al 2016 Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Sul numero di dicembre di Pagine Ebraiche, attualmente in distribuzione, un dossier e molte pagine speciali sono dedicate alla sua figura. Il dossier del giornale dell’ebraismo italiano si apre con un intervento del direttore della redazione giornalistica Guido Vitale.

Una rotta per gli ebrei italiani

Rivolgere un pensiero a Renzo Gattegna non è in questa redazione né un esercizio sporadico, né tantomeno una novità. Lo si è fatto per anni ogni giorno quando era fra noi come Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e nostro Editore. Lo si deve fare oggi. E si continuerà a farlo immancabilmente domani, anche ora che Hashem lo ha richiamato e lui ha lasciato la sua vita terrena. La sua grandezza senza magniloquenza crediamo sia destinata a brillare, il segno che ha inciso non svanirà come le tante bave delle lumachelle della vanagloria che si incrociano per la via. E non tanto, non solo perché in lui si sommavano qualità eccellenti di coerenza, di cultura, di umanità e di impegno. Certo è stato un uomo fuori dall’ordinario e un professionista di valore. E, non dimentichiamolo, è stato in tutta la sua grandezza un ebreo romano. Per dimostrare come, nonostante tante storture, si possa essere ebrei a Roma ed essere grandi e per testimoniare il suo amore profondo per la nostra città, mi ricordava sempre “In definitiva, io sono un fiumarolo”. Ed era pure capace di sbaragliare la mia perplessità con la terribile forza della sua ironia: “Tu non puoi capire, perché te…hai viaggiato”. Con una battuta fulminea ai tavolini del Caffè Tommaseo, il germanista triestino Claudio Magris mi aveva raccontato che una volta un suo amico partenopeo, lo scrittore Raffaele La Capria, parlando di identità e di luoghi, di triestinità, di romanità, di napoletanità di volgarità e di grandezza nell’Italia di oggi, gli aveva detto: “Una cosa è fare i napoletani, una cosa è essere napoletani”. Sì, in questo senso Renzo, che in ogni situazione “era” sempre e non “faceva” mai, è stato anche un grande romano. Eppure la sua grandezza non era quella di farsi grande per proprio conto. La sua dimensione è stata quella di rappresentare e preservare la ricetta collettiva che ha tenuto assieme e garantito la sopravvivenza dell’ebraismo italiano per due millenni e passa. Una ricetta che di generazione in generazione, attraversando indicibili difficoltà e stagioni più felici, gli ebrei italiani si sono tramandati e che oggi, come in tutte le stagioni difficili, corre il rischio di andare perduta. Una ricetta che era fatta certo di fedeltà, di solidità e di prudenza, ma soprattutto era costituita dalla somma di tutte quelle qualità di fede e di grandezza d’animo che attraverso i tempi ci hanno dato in consegna un ebraismo italiano vivo. Se vogliamo guardarla da vicino, la sua politica di leader ebraico è stata proprio questa: ricondurci all’essenza degli ideali che sono capaci di tenere unito l’ebraismo italiano. Mai tradire la lezione proveniente dalle generazioni che ci hanno preceduto, mai discostarsi dalla strenua difesa delle ragioni di Israele, mai inchinarsi ai prepotenti, mai vergognarsi delle inevitabili fragilità e delle contraddizioni dei nostri padri. Ma soprattutto, soprattutto, mai cadere nella tentazione di definire la propria identità attraverso la negazione dell’identità altrui. Mai chiudere la porta del dialogo e dell’accettazione, mai restringere quella piazza, mai ostruire quello spazio comune dove gli ebrei italiani hanno da sempre l’esigenza di incontrarsi, di parlarsi, di accettarsi reciprocamente. Questa capacità di distillare ogni giorno e in ogni sua comune azione, come leader ebraico, come Presidente dell’Unione e come Editore, le qualità essenziali di misura e di grandezza d’animo che sono da sempre la vera risorsa dell’ebraismo italiano, hanno fatto di Renzo qualcosa di più della sua grandezza personale. E a poco vale commuoversi, o ricordare i tanti indimenticabili aspetti di un uomo esemplare negli affetti e nella professione, se non siamo capaci di vedere la sua dimensione universale, che travalica di molto la sua singola persona. La sua grandezza, infatti, non era di essere grande, ma di essere tutti. Di compendiare un’intera collettività con le sue storie e i suoi valori. Di essere lo sguardo, il sorriso, il tono in cui ognuno poteva ritrovarsi e sentirsi a casa. Per questo la morte di Renzo Gattegna evoca con molta forza il messaggio che una delle voci più limpide della letteratura del Novecento, quella di Thomas Mann, ha lasciato nella sua Montagna incantata: “La scomparsa di un uomo è un problema per tutti, tranne che del diretto interessato”. La sua scomparsa non costituisce solo un immenso dolore, ma soprattutto lascia noi con una domanda scomoda. Siamo noi in grado di affermare la nostra identità come una autentica benedizione e non come una negazione? Siamo in grado di onorare il popolo ebraico e Israele dimostrando l’umile gioia di essere ebrei? Siamo capaci di intrattenere l’inevitabile dialogo con le altre componenti della società guardando gli interlocutori a testa alta? Siamo capaci di essere e di accogliere al tempo stesso? Possiamo essere, per semplificare al massimo, ebrei di buon umore? Noi, insomma, che vogliamo? Chi siamo davvero? Possiamo sperare di far brillare almeno un frammento della sua grandezza d’animo? O crediamo invece che ci sarà consentito fingere a lungo di poterne fare a meno. Sarà forse il caso di deciderlo, ora che un’intera generazione di padri e di madri inevitabilmente ci lascia.
Renzo Gattegna ci ha donato fatti, prima ancora che parole. E soprattutto ci ha consegnato istituzioni dell’ebraismo italiano che attraverso una saggia politica di rappresentanza e di comunicazione hanno raggiunto l’apice della loro capacità di raccogliere le risorse necessarie e il punto più alto di relazione con le massime cariche dello Stato e delle altre identità nazionali. Ma al di là dei fatti tangibili è importante tornare anche alle testimonianze che più volte, attraverso questo giornale, il giornale dell’ebraismo italiano da lui fortemente voluto, ha consegnato al lettore. Qualcuno, mentre si preparava questo dossier a lui dedicato, ha ironizzato sostenendo che più che gli scritti di Renzo, per capire davvero la grandezza d’animo di quest’uomo e la sua incrollabile pazienza, bisognerebbe collezionare e pubblicare tutto il pattume velenoso che altri, disperatamente di cattivo umore, hanno tentato senza successo di mettere in circolo per tentare imprudentemente di sbarrargli il passo. Sarebbe certo stata una lettura istruttiva. Ma di nuovo, più viva dei vivi, si è sentita la sua voce per ripetere come alla fine, nel dare e avere che tiene miracolosamente in piedi l’ebraismo italiano, contano solo i fatti. I fiumaroli lo sanno, a volte c’è da andare controcorrente e impugnare saldamente il remo, senza temere i flutti e le correnti. Agli ebrei italiani non è data un’altra rotta.

g.v. – Pagine Ebraiche dicembre 2020

(9 dicembre 2020)