La ferrovia sotterranea

Il romanzo “La ferrovia sotterranea”, di Colson Whitehead (ed. it. SUR) – più che giustamente insignito del Premio Pulitzer e del National Book Award – rappresenta un’opera dalla straordinaria carica emotiva, in grado davvero di coinvolgere il lettore in un percorso di conoscenza inquietante e sconvolgente, alla fine del quale – come accade con tutti i grandi libri – ci si accorgerà di non essere più gli stessi di prima. Ambientato negli Stati Uniti del Sud, verso la metà dell’Ottocento, il testo fa immergere nell’infernale sistema schiavistico, che garantiva il benessere di poche famiglie di uomini bianchi al prezzo di un disumano e bestiale sfruttamento di masse di deportati africani, costretti a offrire ai loro padroni ogni stilla di sangue, ogni goccia di sudore, ogni alito di respiro.
Fondato su una puntuale ricostruzione storica – i personaggi e le vicende sono di fantasia, ma le situazioni ricostruite sono assolutamente veritiere -, il libro introduce in un mondo che si vorrebbe credere non sia mai esistito, e che invece è stato crudelmente, terribilmente reale. Nell’impossibilità, data la vastità delle piantagioni di zucchero, di mais, di cotone, di chiudere gli schiavi in spazi chiusi e recintati, il sistema doveva basarsi essenzialmente su tre irrinunciabili principi.
Il primo era che gli schiavi sapessero che per loro era assolutamente impossibile scappare, e che, ove mai ciò fosse accaduto, sarebbero stati certamente ripresi. E questo è vero. I latifondisti del Sud pagavano somme ingenti per assoldare brutali e spietati cacciatori di uomini, che percorrevano anche migliaia e migliaia di chilometri, pur di riprendere il fuggiasco. E, quasi sempre, ci riuscivano. La caccia di un solo fuggiasco costava anche più del prezzo di cento schiavi, ma era un prezzo che andava pagato. Nessuno poteva fuggire. Nessuno.
Il secondo era che doveva essere ben chiaro, a tutti, che il tentativo di fuga costava caro. Molto caro. Il fuggiasco veniva sottoposto a terribili torture, prima che il suo corpo – quel che ne restava, dopo le reiterate mutilazioni inflitte – venisse arso vivo, alla presenza di tutti gli altri schiavi, mentre i padroni – comprese le signore e i bambini – banchettavano tranquillamente davanti al rogo, appena un po’ infastiditi dal fumo e dall’odore di carne briciata. Ed è vero, è storico.
Il terzo è che, affinché il sistema potesse funzionare, era indispensabile che i neri restassero in una condizione di inferiorità anche culturale e intellettiva. Dovevano essere simili alle bestie, non agli uomini, per cui era assolutamente intollerabile, per esempio, che un nero imparasse a leggere e a scrivere. E, se qualcuno veniva scoperto solo nell’atto di guardare un cartello con delle lettere, gli si cavavano gli occhi. E anche questo è storia.
Una parte del volume è dedicata al lungo periodo in cui la protagonista – Cora, una giovane schiava che ha il coraggio, come già aveva fatto sua madre, di fuggire, costi quel che costi – vive rinchiusa in una soffitta, offertale da una famiglia di bianchi traditori della loro razza, sforzandosi di non fare trapelare all’esterno neanche il minimo possibile segno della propria presenza. Da una piccola fessura tra le travi di legno, Cora guarda per lunghi mesi uomini chiacchierare, signore passeggiare, ragazzi correre, bambini giocare. Il mondo “normale”, in cui non potrà mai entrare. Ognuno di quegli uomini, di quelle signore, di quei ragazzi, di quei bambini, al solo vederla, avrebbero lanciato un urlo terribile, e, pochi giorni dopo, Cora sarebbe stata usata per vivacizzare uno dei banchetti organizzati dal suo padrone, che sarebbe stato immensamente felice di vederla tornare a casa. Un racconto che rinvia, per molti versi, al diario di Anna Frank, che ritengo molto probabile che Whitehead abbia tenuto presente nella scrittura del romanzo.
Eppure, nonostante tanto orrore, non scompare, nella narrazione, il senso della pietà, della compassione, della giustizia. Cora – col suo coraggio, la sua speranza, la sua insopprimibile umanità – sarà ricordata dai lettori come una figura commovente e indimenticabile, un luminoso esempio di fierezza, dignità, libertà.
Credo che nessuna analisi politica o culturale possa valere quanto questo libro per esprimere un giudizio su quanti, quasi due secoli dopo queste vicende narrate – inventate ma, ripeto, assolutamente veritiere -, continuano, in quel grande Paese, a professare il cd. suprematismo bianco. Vergogna.

Francesco Lucrezi

(9 dicembre 2020)