Ticketless – Ascolta, mondo!

Ritorna, a ondate successive, la discussione sull’unicità della Shoah. Ho seguito i vari interventi che si sono susseguiti su questo portale nell’ultima settimana, con interesse, ma anche con un filo di stanchezza. Li trovo un po’ superati dai tempi. La questione della memoria e delle politiche necessarie per conservarla correttamente temo sia stata male impostata in Italia, fin dall’inizio. Non da oggi a prevalere è stata una memoria ingenua, poco critica, indirizzata a confrontare come se fossero la stessa cosa brutture e delitti compiuti in contesti diversi. Tanta ingenuità si registra nel raffronto più impegnativo, fra le vittime dei lager e quelle dei gulag o delle foibe, ma ha mietuto vittime illustri anche la memoria ingenua di chi ha cercato denominatori comuni in scala minore: per esempio, la si è vista all’opera, la memoria ingenua, nell’omologare, sotto l’etichetta del cattivo italiano, il comportamento dei nazifascisti contro gli ebrei e le violenze commesse dallo Stato post-unitario per esempio contro il brigantaggio oppure i gas adoperati da Graziani in Africa. Provo la stessa inquietudine riflettendo oggi sui facili paragoni che sempre più insistentemente si fanno con l’emergenza dei migranti e la discussione sul diritto di asilo. Il cammino degli uomini è saturo di episodi orrendi, fare di ogni erba un fascio però non giova a nessuno, soprattutto non aiuta a capire se un episodio particolare faccia parte di una semplice contingenza, dipenda da uno stato di necessità, da una guerra civile, da una guerra coloniale, da una crisi economica oppure corrisponda organicamente alla natura di un sistema di potere che della violenza aveva fatto la sua prima regola. Non sono questioni che si possano mettere tutte sullo stesso piano.
Detto questo però rimane l’altro lato della medaglia, che non va confuso con il primo, anche se correlato. Che parte dobbiamo avere noi, discendenti di chi ha patito la Shoah, nella società di oggi? Penso sia un dovere esercitare, educare a quella memoria critica, ma anche metterla a disposizione di tutti, condividerla, non farne oggetto di una separazione, ma di discorsi in concreto, proposte operative. Andrebbe fatto qualche passo in avanti rispetto a una discussione che rischia di essere la ripetizione del già detto. A Bologna so per esempio che esistono gruppi di volontariato che assistono i migranti non solo, come è giusto e importante, nella vita quotidiana, ma anche insegnando loro oltre che la lingua, la storia d’Italia e dunque perché no, anche affrontando con loro la tragedia del 1938-1943. Sono esperienze pionieristiche che andrebbero incentivate, avvicinerebbero al punto di equilibrio che consiste nella legittimità del paragone storico, che deve sempre fondarsi sulle affinità, ma anche sulle differenze. Il lascito che la Shoah ci ha consegnato si potrebbe riassumere in questo faticoso esercizio di memorie non ingenue ma critiche. I facili paragoni storiografici stanno rischiando di diventare trappole per la memoria, ma pensare la Shoah in termini meramente autoreferenziali è un pericolo maggiore. Jean Améry condivideva con Levi l’idea che ogni elemento particolaristico fosse da ricusare: la preghiera Ascolta, Israele! non interessava a nessuno dei due superstiti del lager. Solo Ascolta, Mondo!, solo questo ammonimento si sentivano di profferire “con collera appassionata”.

Alberto Cavaglion

(9 dicembre 2020)