Le due anime di Chanukkah

Quasi trent’anni fa mi capitò di trascorrere lo Shabbat di Chanukkah a Londra in occasione di un matrimonio. Quel venerdì sera dopo la Tefillah il Bet ha-Kenesset sefardita organizzò una cena comunitaria seguita da un dibattito sulla commercializzazione della festa. I promotori volevano conoscere il parere dei partecipanti sul fatto che Chanukkah, in analogia con quanto avviene da tempo per le feste non ebraiche di questo periodo annuale, è ormai diventata anch’essa un’occasione di acquisti e consumi che rischiano di snaturarne la vera essenza. Fu chiesto anche a me cosa ne pensavo. Risposi che adottare gli usi dei non ebrei è proibito solo nella misura in cui contravvengono alla nostra fede rigorosa in un Unico D., ovvero sono privi di fondamento razionale. Nel caso in questione argomentai che viceversa, se fare regali particolarmente ai bambini può contribuire ad avvicinarli alla nostra Tradizione ben venga, a condizione di non esagerare nelle spese e nel tempo dedicato a esse.
Chanukkah è una festa dalla doppia anima. Fin dal Talmud si insiste sul fatto che il miracolo deve essere adeguatamente pubblicizzato (in una società ebraica, almeno). L’accensione prescritta deve avvenire al calar della notte, fuori dalla porta o sulla finestra prospiciente all’esterno, in modo che il lume risalti sulla pubblica via. E possibilmente i lumi vanno accesi senza attendere troppo e durare “finché viene meno il passaggio (o passeggio!) dal mercato” (‘ad she-tikhleh reghel min ha-shuq), ovvero finché c’è gente in strada che li possa vedere: secondo i nostri Maestri per la mezz’ora successiva. Nel corso dei secoli la pubblicizzazione ha conosciuto degli ampliamenti, legati anche a motivi storici che vedremo. Fin dal Medioevo è attestato l’uso poi codificato e tuttora osservato di accendere i lumi nel Bet ha-Kenesset, per esempio. In tempi molto più vicini a noi si è diffusa la prassi di accendere Chanukkiyot sulle pubbliche piazze delle grandi città.
Il corrente annus terribilis, cominciato a Purim, non risparmia neppure Chanukkah, chiudendo (in modo definitivo, almeno così ci auguriamo) un ciclo completo di festività vissuto all’insegna dell’insolito. Questo ci costringe a ripensare il senso, l’osservanza e la prospettiva stessa della “festa dei lumi”. È opportuno ricordare che il Talmud introduce l’argomento dicendo che “il precetto del lume di Chanukkah è per ciascuno in casa sua” (Ner Chanukkah Mitzwah Ish u-Beytò). Non si esce d’obbligo in sinagoga e tanto meno in piazza. Persino l’uso di dire la Berakhah sui lumi che si accendono durante una festa comunitaria (all’infuori della Tefillah) è questionabile come se pronunciassimo il Nome Divino invano! Chi viene invitato a cena non esce d’obbligo con l’accensione a casa di chi lo ospita (a meno che non vi si fermi anche a dormire) ma deve provvedere ad accendere a casa propria prima di uscire.
Quest’anno che il coprifuoco farà cessare anzitempo ogni passeggio dal mercato è il momento di interiorizzare queste halakhot. Di più. Nel Talmud si accenna a un’epoca storica in cui i Persiani (forse i fanatici Sassanidi) avevano proibito agli Ebrei di far apparire i lumi di Chanukkah all’esterno durante la contemporanea festa della rinascita del dio Mitra che veniva fatta precedere proprio da un coprifuoco. I Maestri stabilirono allora che sarebbe stato sufficiente collocare i nostri lumi sul tavolo da pranzo. È lecito immaginare che l’uso di accenderli dentro la sinagoga sia stato introdotto in un’epoca di persecuzione simile. In un ambiente non ebraico accendiamo i lumi per noi stessi e per i nostri famigliari. Questo pensiero deve guidarci ancor più quest’anno, con la pandemia in corso.
Voglio proporre un ulteriore spunto di riflessione. Mi è stato domandato che male ci sia nel festeggiare la notte di San Silvestro, il Sylvester come lo chiamano in Israele. Sotto il nome di Calendae, il 1° gennaio è menzionato fra le festività dei non ebrei durante le quali è proibito per una settimana ogni contatto commerciale con essi secondo la Mishnah all’inizio del trattato sull’idolatria (‘Avodah Zarah). Ecco che il Sylvester nasce come uso idolatrico ed è vietato in base ai criteri che ho ricordato all’inizio. Il celebre commentatore R. ‘Ovadyah da Bertinoro (sec. XV), riportando fonti più antiche, scrive che le Calendae ricorrono negli otto giorni successivi al solstizio invernale. Dal momento che il Primo Uomo constatava che fino ad allora i dì si accorciavano, pensò inizialmente che a causa del suo peccato il mondo stesse tornando al caos primordiale e decise di trascorrere otto giorni in digiuno e preghiera, finché si accorse che nel frattempo le giornate avevano ricominciato ad allungarsi. Si rese allora conto semplicemente che così andava il mondo e decise di istituire altri otto giorni di festa per l’umanità successiva. “Egli li intese in onore del Cielo, ma gli altri li hanno dedicati all’idolatria”.
Fra il 25 dicembre e il 1° gennaio ci sono otto giorni, come sono otto i giorni di Chanukkah, che pure hanno inizio il 25 kislev. Ma lo spirito è tutto differente. Prepariamoci dunque a vivere Chanukkah nella sua anima casalinga, che è forse quella più autentica. Per questo forse noi ebrei soffriremo meno di altri, quest’anno, il fatto che “il passeggio del mercato” cessa prima ancora di cominciare. Non sono per forza regali e veglioni a fare la festa!

Rav Alberto Moshe Somekh

(10 dicembre 2020)