Machshevet Israel
Sansone il nazir

Giorni fa il corso di Storia della filosofia, tenuto dal professor Francesco Valerio Tommasi alla Sapienza, ha ospitato il professor Shmuel Wygoda dell’università ebraica di Gerusalemme per una serie di lezioni sulle letture talmudiche di Emmanuel Levinas. Oltre un centinaio di studenti e uditori lo hanno ascoltato e interrogato sulle pagine 66a-b del trattato Nazir del Talmud Bavli e i relativi commenti levinasiani, nati in un lontano colloquio degli intellettuali ebrei di lingua francese dedicato al tema dei giovani e della giovinezza. Mishnà e ghemarà stratificate, complesse e all’apparenza non connesse, a partire dalle quali vorrei estrapolare un tema su cui non mi ero mai soffermato: il nazireato di Shimshon, più noto come Sansone, del quale parla il libro dei Shoftim/Giudici, cap.13-16. È un personaggio sul quale per lo più sorvoliamo, forse perché chiuse la propria vita con un gesto da kamikaze e questo non è moralmente apprezzabile. Tuttavia c’è di più da sapere e da indagare; e Levinas e Wygoda, scavando nel Talmud, ce ne offrono nuove interpretazioni.
Noi tendiamo, scrive Levinas, a vedere in Sansone “un bel fusto che svelle la porta di una città e che abbatte con un colpo di mascella d’asino una folla di filistei. La Bibbia dice che egli fu per quarant’anni giudice in Israele [qui, pare, Levinas si è sbagliato, il testo biblico dice esattamente la metà, vent’anni, ma è un dettaglio che in questo contesto possiamo trascurare]. Per essere giudice in Israele era necessario conoscere la Torà orale, almeno agli occhi dei dottori del Talmud. A dispetto dell’anacronismo, per loro era necessario che Sansone fosse coinvolto nelle discussioni future dei tannaiti, degli amoraiti e dei gheonim, che fosse cioè in spirito e verità un talmid chakham”. Nell’essere talmid chakham, uno studioso, sta il senso della giovinezza, almeno secondo Levinas su suggerimento del Maharsha, il talmudista polacco Shmuel Eidels (XVI-XVII secolo). Chi studia non invecchia, chi vive da studioso si abitua a essere curioso, recettivo e mentalmente flessibile come un ragazzo che abbia voglia di apprendere. Verità psicologica, prima ancora che filosofica o rabbinica. Ma perché sottolineare che era un nazir? Cosa significa essere un nazir? Torà scritta e Torà orale spiegano trattarsi di una consacrazione temporanea a Dio, durante la quale il nazir si impegna con voto a non tagliarsi i capelli, non bere alcun frutto della vite e non rendersi impuro con il contatto di cadaveri, pena lo scioglimento del voto. Parte della lettura levinasiana è dedicata a trovare significati a questi tre impegni; mentre per Wygoda il nazireato rappresenta un ideale e il metro stesso dell’eticità ebraica: un esercizio di decentramento da sé per essere totalmente responsabili di/per altri; l’ascesi, entro certi limiti, è uno strumento utile a questa dedizione e cura d’altri. Sansone sarebbe, in tale rilettura, non un eccentrico asceta ma uno scupoloso osservante della Torà e dell’halakhà al fine di meglio servire Dio (‘avodat haShem) e il suo popolo; allora il gesto estremo, l’autosacrificio, deprecabile in se stesso, diventa una conseguenza della sua totale dedizione. Infatti la Torà non lo condanna (come spesso facciamo noi).
Non lo condanna ma, nel momento di sciogliere il voto – quasi a dire che non si può sempre e solo vivere-per-altri – il nazir deve compiere precisi sacrifici, tra cui un sacrificio espiatorio (cfr. Bemidbar/Nm 6,16). Ma se il nazireato è un’ideale di santità, perché chi lo abbraccia deve espiare? Certo, la tradizione religiosa ebraica è contraria ai voti (nedarim), anche quelli temporanei, eppure il voto di nazireato è previsto e regolato dalla Torà. Si tratta forse di una concessione all’istinto religioso, che porta gli esseri umani a fare voti al Cielo? Un tal voto è un po’ come un sacrificio non richiesto, e la morte dei due figli di Aronne, puniti per la loro libera iniziativa cultuale, è tanto nota quanto misteriosa. Quasi la Torà mettesse un limite alla devozione religiosa! Il Maimonide, negli Shmonà praqim, gli ‘otto capitoli’ che introducono il suo commento ai Pirqè Avot, si interroga su questo voto di auto-consacrazione riportando l’opinione dei maestri del Talmud: “Farà espiazione… Forse che il nazir ha peccato contro qualcuno? Sì, contro se stesso, affliggendo la propria persona [privandosi] del vino”. Il ragionamento maimonideo è: se chi si priva del vino, che è un piacere permesso, commette una trasgressione, tanto più trasgredisce chi si priva di tutti i piaceri permessi abbracciando una vita di rinunce, non conforme alla natura propria dell’uomo. Per un breve periodo va bene, ma per lunghi periodi o per sempre non va bene. Non c’è virtù, conclude il Rambam, nell’affliggere i propri corpi pensando di compiere azioni meritorie. A ben leggere, però, Sansone era stato consacrato dalla madre, era nazir dal grembo materno! Lo stesso accadde a Samuele. Entrambi non furono, allora, nazirei per iniziativa propria ma per obbedienza alla volontà delle loro genitrici. Furono nazirei già prima di nascere, senza scelta. Non è un paradosso espiare per una scelta personalmente mai fatta, per un atto di obbedienza che risale ai padri e alla madri, per una vocazione che non abbiamo mai udita? In queste domande sta tutto l’ebraismo – e non solo la sua etica – secondo Levinas.

Massimo Giuliani, Università di Trento

(10 dicembre 2020)